Per una giustizia climatica globale

di Raffaele Masto

Solo venerdì scorso, il 27 di settembre, in tutto il mondo si sono svolte le manifestazioni indette da giovani e giovanissimi per i cambiamenti climatici favoriti anche dai comportamenti dell’uomo. Sotto accusa ci sono i politici, che pur consapevoli del problema non hanno fatto niente per fermare la tendenza all’inquinamento che il modello di sviluppo nel quale viviamo ci ha portato.

L’obiettivo è quello di restare sotto i due gradi di riscaldamento globale. Ciò significa che i Paesi europei, per esempio, devono ridurre le proprie emissioni di un venti per cento circa annuo. In pratica ciò vuol dire cambiare bruscamente e in modo radicale abitudini di vita, modi di muoversi, di scaldarsi e di rinfrescarsi, di procurarsi il cibo, di consumarlo e tante altre cose ancora.

Bisogna farlo in Europa, nel Nord America e in altri luoghi del mondo, quelli nei quali il benessere è elevato e, di conseguenza, le “emissioni” consistenti, non più accettabili se si vogliono rispettare gli obiettivi che i giovani che hanno manifestato chiedono.

C’è un problema che però pochi mettono in evidenza e che rende tutto più complicato, e impone che le misure da prendere siano ancora più radicali e profonde. Il nostro pianeta non è fatto solo, per semplificare, da Europa, Nord America, Giappone, Cina. Ci sono anche l’America del Sud, l’Asia e l’India, e soprattutto la grande Africa. Diciamo, un po’ grossolanamente, che la metà dei sette miliardi e mezzo di persone che abitano il pianeta Terra hanno un benessere tale da poter ridurre le loro emissioni. L’altra metà, che produce emissioni inferiori, non lo può fare, pena la riduzione di un benessere già gravemente insufficiente.

Ecco perché bisognerebbe introdurre nelle lotte per il clima il concetto di Giustizia Climatica. Una riduzione globale delle emissioni per una certa misura uguale per tutti non è equa. Anzi, è profondamente iniqua, inaccettabile da quegli almeno tre miliardi di persone che appartengono al mondo con un basso benessere medio. È come se si imponesse una tassa non in percentuale ma in quota fissa a una popolazione con profonde differenze interne di reddito.

In sostanza, se si vuole avere una politica climatica globale equa si deve consentire alla metà del mondo meno fortunata di ridurre meno le emissioni di quanto deve farlo la parte più fortunata. E siccome la riduzione necessaria globale è fissa, Europa, Nord America, Giappone, Cina devono ridurre le loro emissioni ben più di quanto previsto e calcolato, in modo da consentire al resto del mondo di aumentare il proprio standard di benessere costruendo infrastrutture come ferrovie, strade, ospedali, reti elettriche, acquedotti. Farlo con le energie rinnovabili impone comunque grandi investimenti.

La parte povera del mondo, in sostanza, dice alla parte più ricca: “Avete raggiunto un livello di benessere elevato sfruttando l’energia fossile del petrolio e del carbone, avete usato forza lavoro in modo indiscriminato, avete sfruttato materie prime che quasi sempre sono celate sotto il nostro territorio. Ora ci chiedete di fermare tutto. No! Ora tocca a noi”.

Per evitare tutto ciò bisogna pensare a livelli di riduzione delle emissioni diversi. Più equi, appunto.

(Raffaele Masto – Buongiorno Africa)

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