Prosegue l’analisi dei siti africani dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’umanità che attualmente sono inseriti in una apposita lista che li dichiara in pericolo di sopravvivenza. Si tratta di riserve naturali e di luoghi culturali, che possono comprendere aree archeologiche o edifici storici e religiosi, minacciati dai comportamenti umani o dai cambiamenti climatici.
Nei quotidiani resoconti che costellano le pagine dei giornali e i servizi televisivi sulla tragica situazione del conflitto in Libia, da tempo non compaiono neppure accenni sullo stato di salute dei siti archeologici protetti dall’Unesco. E potrebbe essere questa l’unica buona notizia che paradossalmente ci offre l’attualità.
La Libia è infatti al centro di serratissime trattative diplomatiche che vedono coinvolte tutte le principali potenze mondiali, i cui appetiti nel voler mettere le mani su una terra chiave per gli approvvigionamenti petroliferi non sono un mistero per nessuno. Oggi l’Onu riconosce come legittimo il governo guidato dal leader Fayez al-Serraj che da Tripoli governa però soltanto la parte occidentale del Paese, mentre quella orientale è sotto il controllo delle truppe del generale Khalifa Haftar sostenuto da Russia, Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e dall’Egitto di Abdel Fatah al-Sisi. Rispetto all’inizio dell’anno la situazione è cambiata radicalmente, visto che in quel momento la capitale Tripoli sembrava dover cadere sotto i bombardamenti di Haftar. L’assedio, durato oltre un anno, è finito soltanto grazie all’intervento dei turchi voluto dal «sultano» Erdogan, che si è inserito nel territorio come ulteriore forza belligerante con tutte le conseguenze del caso. E così al-Serraj, rinvigorito dall’appoggio turco, non vuole rinunciare al controllo di Sirte, altra città chiave da riconquistare a sé per non far passare l’idea che il suo governo si accontenti di uno Stato dimezzato rispetto ai confini universalmente riconosciuti.
In mezzo, nel senso letterale della parola, stanno i cinque siti storico archeologici riconosciuti dall’Unesco come Patrimonio dell’umanità, ma che nel contempo da 4 anni sono anche nella lista nera di quelli giudicati in pericolo di sopravvivenza. Si tratta delle aree archeologiche romane di Sabratha, Leptis Magna e Cirene, tutte sulla costa, e, all’interno del Paese, della città vecchia di Ghadames e del sito di arte rupestre di Tadrard Acacus. Nel contesto geo politico appena descritto sembra persino scontato che nessuno si curi dei beni storico artistici, a meno di non considerarli simboli di una civiltà da combattere, il che sarebbe anche ben peggio. Fu infatti, non dimentichiamolo, questo principio a creare i presupposti per la distruzione dello splendido sito archeologico di Palmira in Siria. Il sedicente Stato islamico creato dall’Isis fece delle rovine romane della città, prima il palcoscenico per efferate torture da comminare sotto lo sguardo delle telecamere ai suoi prigionieri occidentali avvolti nelle tute arancioni; poi, addirittura decise di radere al suolo i templi e i colonnati più celebri per attirare su di sé l’attenzione internazionale. E ci riuscì ampiamente.
Per fortuna questi presupposti in Libia non ci sono. Anzi, il rischio potrebbe addirittura concretizzarsi per ragioni opposte. Infatti le minacce ai templi potrebbero venire piuttosto dalla decisione di qualcuna delle parti in lotta di usarli, danneggiandoli magari in modo irrimediabile, come nascondigli sicuri per chissà quale genere di armi, proprio in virtù del fatto che i belligeranti non oserebbero mai bombardare quei siti senza suscitare su di sé la condanna del mondo, proprio mentre ognuno di loro si arroga il titolo di essere presente in armi in Libia come difensore della civiltà. Gli aerei che i russi in questi giorni hanno portato nella base di Jupra in territorio controllato dal loro amico Haftar hanno scatenato il ritorno sulla scena degli Usa, ma non fanno certo rischiare la distruzione ai monumenti della città vecchia di Ghadames, al confine tra Libia, Tunisia e Algeria, o alle pitture rupestri di Tadrad Acacus, che si trovano nel deserto montagnoso del sud del Paese al confine con l’Algeria, dove le caverne ospitano graffiti preistorici molto importanti, in un paesaggio fatto di archi di roccia, gole e dune con la sabbia che si tinge di svariati colori. Piuttosto quella città può rischiare distruzioni qualora continuasse ad essere scelta come luogo di passaggio di merci e truppe irregolari dal deserto verso la costa.
Ghadames si trova al centro di un’oasi, con mura a secco munite di torri e bastioni e case a due piani di caratteristica berbera e popolare, un’architettura lontana dalle influenze esercitate dal Mediterraneo ed edificata con tecniche di costruzione antiche di secoli. Le terrazze sono riservate alle donne e le vie coperte agli uomini. L’uso dell’acqua così preziosa è regolato da un antico sistema di distribuzione. Fu colonia romana e importante snodo di commerci.
Che cosa però ha spinto l’Unesco da anni a infilare i 5 siti nella sua «lista nera» senza poter rilevare benefici tali da cancellarne il marchio di precarietà? Prima di tutto la preoccupazione più che fondata che non si faccia abbastanza per il restauro e la conservazione dei beni in un contesto deteriorato non solo dalla cronica mancanza di fondi, ma anche da sbalzi climatici che mettono a rischio i già precari muri secolari. In più ci sono forti timori che la acclarata situazione di guerra favorisca commerci illegali su vasta scala di beni archeologici, magari anche frutto di scavi clandestini, capaci di far ricavare profitti milionari con poco rischio, così come verificatosi in Siria e in Iraq con le vestigia delle civiltà mesopotamiche.
A Sabratha, antica città romana situata sulla riva del Mediterraneo tra Tripoli e il confine tunisino, in territorio controllato da al-Serraj, a destare le maggiori preoccupazioni è lo stato in cui versano le rovine del teatro. Questo non solo costituisce uno dei resti più significativi del luogo, ma è particolarmente importante per il muro della scena formato da 3 piani a colonne sovrapposte che si staglia sullo sfondo di un’imponente cavea, con 11 gradini capaci di ospitare 5 mila spettatori. Mura bizantine circondano il foro e i templi romani.
A Cirene invece l’attenzione posta dagli osservatori dell’Unesco era sulla possibilità che vicino alle rovine del tempio di Zeus venisse edificato un grande albergo capace di devastare irrimediabilmente il paesaggio, anche se rispetto al lasso di tempo intercorso tra sopralluoghi e dichiarazioni di principio e l’oggi, non sembra essere certo più questo il timore principale. Prima della caduta di Gheddafi infatti lo Stato stava cercando di costruire un’industria turistica nazionale anche con la creazione di villaggi vacanza sulla splendida costa della Cirenaica, la zona cui Cirene stessa dà nome e che ora è controllata da Haftar con evidenti altre mire. Siamo tra Bengasi e il confine egiziano, al cospetto di una città fondata nel 630 a.C. dai Dori provenienti dall’isola greca di Santorino. Cirene diede i natali al poeta Callimaco e all’astronomo Eratostene. All’inizio del I secolo a. C. divenne colonia romana. Nel 400 le invasioni barbariche la spopolarono e fu abbandonata. Oggi le sue vestigia consistono nell’immenso tempio di Zeus che ospitava una replica della celebre statua di Fidia, nell’acropoli, nel santuario di Apollo e nella necropoli.
Geograficamente in mezzo tra Sabratha e Cirene, sulla costa, sorge l’antica Leptis Magna, bisognosa come le altre di sopralluoghi costanti e cure accurate da parte degli archeologi, che oggi come nel recente passato nessuno è invece in grado di garantire. Di fondazione fenicia, la città rimase cartaginese sino alla sconfitta di questi a Zama, nel 202 a. C., ad opera dei romani, battaglia che chiuse la seconda guerra punica. Quando, tre secoli dopo, divenne imperatore nel 193 d. C. Settimio Severo, che qui era nato, Leptis Magna fu dotata di un nuovo foro con annessa basilica e un lunghissimo colonnato che unì le terme al porto rinnovato, oltre all’Arco trionfale destinato a celebrare l’imperatore e la sua famiglia. La città resta un perfetto esempio di impianto urbanistico tardo imperiale con influenze orientaleggianti. La zona, appena alla periferia di Homs, tra Tripoli e Misurata, è ad altissima temperatura, in ogni senso.
(Mario Ghirardi)