Oltre alle iniziative di accoglienza e integrazione dei migranti sul versante italiano, le Chiese locali operano anche sull’altro fronte, quello dei Paesi di origine.
Giunti a Natale e ormai a fine 2018, diamo uno sguardo a uno dei temi più caldi dell’anno, in Italia e non solo: quello delle migrazioni, che ha visto tra i protagonisti le Chiese. Non ci riferiamo solo alla Chiesa cattolica italiana, di cui sono abbastanza note le iniziative di accoglienza e integrazione – talvolta in sinergia con Chiese sorelle (pensiamo al progetto di corridoi umanitari realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese) –, ma alle Chiese dei Paesi africani da cui tanti giovani escono per tentare l’avventura in Europa. Non è facile informare esaurientemente su tutto quel che si fa, Paese per Paese o diocesi per diocesi, ma qualcosa si muove. Anche se i risultati sono in apparenza scarsi.
Una delle ultime iniziative in ordine di tempo che possiamo citare è quella della Conferenza episcopale dei Paesi nordafricani (a esclusione dell’Egitto). Riunita a Tangeri a fine settembre, la Cerna (è questa la sigla dell’organo ecclesiale maghrebino) ha constatato che «il fenomeno della migrazione, in aumento in tutto il mondo, rimane una delle principali cause della sofferenza che condividiamo nei nostri Paesi», e denunciato «la sistematica violazione dei diritti fondamentali dei migranti». È appena il caso di ricordare che si tratta di una dichiarazione fatta da vescovi di diocesi che sono territori di passaggio per le persone provenienti dall’Africa subsahariana (nella sola prima quindicina di settembre erano passati in 40.000 dal Marocco alla Spagna) – emigranti che, soprattutto in Libia ma non solo, come ormai tutti sanno vanno incontro a vessazioni di ogni genere.
All’incontro di Tangeri avevano preso parte anche due vescovi italiani, il presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, Guerino Di Tora, e Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana fino a poche settimane fa.
Una riunione precedente della Cerna, l’anno passato, si era tenuta più a sud, in Senegal, per incontrarvi «una parte dei responsabili delle Chiese subsahariane da cui proviene la maggior parte dei migranti per riflettere sui mezzi che la Chiesa può mettere in campo per soccorrere chi è debole» – non dimentichiamo però che, soprattutto nel Maghreb, la realtà ecclesiale è, numericamente, ben piccola cosa. «Il filo d’Arianna della nostra azione – affermava in quell’occasione padre Alphonse Seck, segretario generale della Caritas senegalese e responsabile “migrazioni e sviluppo” di quindici Caritas nazionali – è la vicinanza a quanti hanno fallito l’avventura migratoria e l’aiuto al loro reinserimento». In termini di prevenzione, «se la libertà di emigrare è un diritto inalienabile per ogni cittadino del mondo, noi abbiamo il dovere di ricordare a chi vuole partire i pericoli della migrazione clandestina, in cui si rischia anche la vita».
Si potrebbero citare altre diocesi dell’Africa occidentale (Costa d’Avorio, Nigeria…) e centrale (per esempio in Ruanda) nelle quali si cerca di dissuadere i giovani dalla scelta di partire, tramite l’informazione e la costituzione di specifici centri di ascolto. Restando in Senegal, l’arcivescovo di Dakar, Benjamin Ndiaye, ha alzato la voce richiamando chi di dovere a «valutare il nostro grado di responsabilità nelle situazioni ingiuste in cui i neri vengono a trovarsi» – il riferimento diretto era al mercato degli schiavi documentato in Libia. «Non possiamo lasciare che continuino a esistere queste filiere dell’emigrazione. Bisogna davvero arrestare questo fenomeno». E, rivolgendosi direttamente ai potenziali candidati all’emigrazione: «È meglio restare poveri nel proprio Paese che subire torture tentando l’avventura dell’emigrazione. Cari giovani, di grazia: siamo noi che costruiremo il nostro Paese, che lo svilupperemo. Non lo farà nessuno al posto nostro».
Anche il Sinodo dei vescovi sui giovani che si è tenuto a Roma lo scorso ottobre non poteva evitare questo tema, essendo di giovane età gran parte dei migranti. «Le migrazioni non esistono da ora, c’erano già ai tempi di Abramo – ha ricordato il card. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui –. Ma adesso, per molti, alle spalle c’è una scelta di sopravvivenza. Nei nostri Paesi molti giovani si chiedono: “Se resto muoio, se parto muoio, cosa scelgo?”». Un altro vescovo africano ha sottolineato che, mentre «la Chiesa europea e occidentale fa bene a sviluppare il discorso dell’accoglienza», da parte sua «in Africa la Chiesa è impegnata a far sì che i giovani non partano, visto il rischio di finire nelle mani dei trafficanti di esseri umani», a differenza di chi spinge i giovani a emigrare, «in modo che a livello locale non ci siano più generazioni per nuove classi dirigenti, e si favorisca così un nuovo colonialismo. Non è in contraddizione, quindi, l’idea di una Chiesa che accoglie e quella che aiuta invece a non emigrare».
TV2000 trasmetteva, a fine novembre, un documentario sull’iniziativa spontanea (non di origine ecclesiale) di un gruppo di gambiani rimpatriati dalla Libia che si dedicano – attraverso incontri e drammatizzazioni – a dissuadere i giovani come loro dall’intraprendere la rotta dell’«emigrazione illegale».
Foto: Noborder Network
Pier Maria Mazzola è il direttore responsabile di Africa. È stato direttore di Nigrizia e direttore editoriale di Emi (Editrice Missionaria Italiana). È autore di libri, tra cui Sulle strade dell’utopia (Emi) e Leoni d’Africa (Epoché), e curato Korogocho di Alex Zanotelli (Feltrinelli) e Io sono un nuba di Renato Kizito Sesana (Sperling & Kupfer).