In uno dei primi post di questo nuovo blog collettivo di “Africa”, Antonella Sinopoli ha aperto il filone “letterario”. Mi ci inserisco anch’io, stimolato da un incontro di questi giorni.
Lei si chiama Yewande Omotoso, ed è… La signora della porta accanto. O meglio, è questo il titolo del suo primo romanzo che possiamo leggere in italiano (edizioni 66thand2nd di Roma). Ma non mi addentrerò, in questa sede, nel merito di quest’opera, in libreria da oggi. Se non per dire che è una lettura a suo modo davvero piacevole – “a suo modo” perché tratta comunque di un tema duro come quello dell’apartheid e del razzismo, di ogni razzismo al di là delle coordinate geografico-temporali.
Torniamo a Yewande. Figura slanciata, donna di una bellezza individualizzata, figlia d’arte (il padre Kole è uno scrittore affermato e il fratello maggiore Akin è attore e regista), non assume atteggiamenti da scrittrice parvenue. Si propone con semplicità, ma senza ingenuità. Ha le idee chiare – sull’Africa, sul femminismo… su tutto –, ma preferisce non declinarle in forma di analisi e tanto meno di slogan. È una narratrice (oltre che poeta), consapevole delle proprie capacità, e su questo terreno intende rimanere. La fiction, le storie, i personaggi. Verità che prendono corpo dal fluire della vita, dalla coerenza dei caratteri, dal loro microcosmo. Come appunto succede all’interno del quartiere residenziale di Città del Capo che è l’unità di luogo praticamente di tutta l’azione di La signora della porta accanto (a parte gli inevitabili, e illuminanti, flashback).
Questa, dunque, la prima lezione, apparentemente dimessa ma così importante, di Yewande: Sutor, ne ultra crepidam, per citare il vecchio latino. Mantenersi entro le proprie competenze. Non improvvisarsi tuttologi. E, francamente, il campo di competenza di Yewande è più che sufficiente: la letteratura come finestra sulla verità della Storia.
Non ho ancora detto da dove Yewande Omotoso viene. Il cognome suonerà a molti come yoruba: così è, infatti. Però è nata alle Barbados, da dove la famiglia l’ha portata prestissimo in Nigeria e di là, all’età di 12 anni, a Città del Capo – prima che decidesse autonomamente il trasloco a Johannesburg (nel suo libro c’è anche un fugace, gustoso accenno alla differenza culturale tra le due capitali sudafricane). Di formazione è architetta. Poi, naturalmente, si muove ovunque serva, e dappertutto si sente a proprio agio. Dice di non vivere la questione dell’identità in modo particolarmente “geografico”. I passaporti che detiene sono un simbolo della sua visione flessibile delle radici. Come non chiederle, allora, se si ritrova nella categoria degli scrittori che si definiscono, o vengono definiti, “afropolitani”?
La risposta è sorridente, ma netta e concisa: «Io non mi ci identifico. Anzi, a dirla tutta, questa cosa mi dà anche un po’ fastidio». Come mai? In fondo il termine è stato coniato da una scrittrice un po’ ghanese un po’ nigeriana un po’ inglese un po’ ecc. come Taiye Selasi (l’autrice di La bellezza delle cose fragili, Einaudi) che qualcuno ricorderà nel reality Masterpiece di qualche anno fa in Rai. Afropolitano: un bel neologismo che indica, con chiarezza, un “africano cosmopolita”.
«Ma a chi serve questa parola? – precisa Yewande –. Mi sembra sia più utile all’Occidente per parlare di me, che non utile a me». Insomma la solita mania linneana di catalogare, anche se questa volta autoproposta da un’insider. Catalogare non solo flora e fauna ma popoli e persone. Viene in mente un altro scrittore, il keniano-ugandese, e gran frequentatore di mezza Africa, Binyavanga Wainaina. Si rifiuta anche lui di venire ascritto agli afropolitani. Definizione che peraltro ha già bisogno di nuove distinzioni: gli afropolitani “globali”, alla Taiye Selasi (e spesso glamour), o gli afropolitani “africani” di cui parla Achille Mbembe (l’intellettuale camerunese, oggi sulla cresta dell’onda, che vive e insegna a Johannesburg)?
Intanto Yewande, che è di lingua madre inglese e che naturalmente ha imparato l’afrikaans, scopre tutta l’importanza dello yoruba, la sua “lingua paterna” che sente il bisogno di dominare meglio. È anche tornata in Nigeria per studiarlo, e a livello universitario: «È stato il periodo più felice della mia vita. Ho capito che una lingua africana come lo yoruba era importantissima per la mia scrittura». Ne troveremo traccia nel suo prossimo romanzo? Per il momento ci può dire soltanto sarà «sul dolore, sulla morte»…
Pier Maria Mazzola è il direttore responsabile di Africa. È stato direttore di Nigrizia e direttore editoriale di Emi (Editrice Missionaria Italiana). È autore di libri, tra cui Sulle strade dell’utopia (Emi) e Leoni d’Africa (Epoché), e curato Korogocho di Alex Zanotelli (Feltrinelli) e Io sono un nuba di Renato Kizito Sesana (Sperling & Kupfer).