di Annamaria Gallone
Lo spettatore alla ricerca di film africani alla 81° mostra d’arte cinematografica della Biennale di Venezia (28/8-7/9), non li trova nella sezione del Concorso ufficiale, ma solo qua e là nelle varie sezioni parallele.
Comincio con parlarvi di un inquietante film egiziano, “Profumo di menta“, titolo originale MORTAR BINAAA di Muhammed Hamdy, selezionato nella Settimana della critica, prodotto da Egitto, Francia, Tunusia e Qatar.
Il regista, (già direttore della fotografia per titoli come The Square e qui alla sua opera prima) ha saputo creare un’opera di luci e ombre, densa di atmosfera e allegoria, segnando una nuova voce affascinante nel cinema africano e arabo. Quasi non narrativo, il film di Hamdy cattura la paranoia tranquillizzata di una generazione ferita, tormentata da ciò che non può dimenticare e da ciò che rifiuta di arrendersi. Un tempo viva con la promessa del cambiamento, il Cairo desolato di Hamdy è una città di fantasmi dal profumo dolce.
Bahaa (Alaa El Din Hamada), un medico dal cuore spezzato, siede stordito nella sua clinica in attesa del suo prossimo paziente, quando appare il suo amico Mahdy (Mahdy Abo Bahat). Le foglie di menta germogliano e spuntano da dietro i suoi riccioli mentre spiega al medico che fumare hashish è l’unica cosa che ne impedisce la crescita. Se lasciati incustoditi, i germogli si fortificano in piante vere e proprie, il cui aroma richiama le ombre in movimento che inseguono le persone per le strade in rovina della città e negli edifici abbandonati. Ora che la scorta di Mahdy è finita, non avrà più un posto dove nascondersi. I due uomini entrano ed escono insieme da case infestate, profumati di paure persistenti, alla ricerca di un’altra tregua con i loro ex compagni, impreparati a ciò che potrebbero trovare.
La Direttrice e Delegata generale della SIC Beatrice Fiorentino, ha sottolineato come la vicenda del medico Bahaa e del suo amico Mahdy, in fuga dai fantasmi del passato, anticipa l’immagine di «una generazione condannata all’esilio perenne, incompresa e braccata per la sua germogliante “diversità”». facendo emergere, attraverso il filtro del realismo magico, «le tensioni sociali di un Nord Africa ancora spaccato fra tradizione e modernità».
E molto interessante è anche Sudan, Souviens-Toi, girato dalla regista francese di famiglia nord africana Hind Meddeb, 46 anni, giornalista che ama raccontare storie vere, non manipolate da produttori interessati solo al guadagno. Il suo è un documento struggente sugli avvenimenti che tra il 2018 e il 2023 hanno portato il Sudan dal crollo di un regime ad alcune riforme, al colpo di stato e ora alla guerra civile. «Da lì sono scappati tutti – dice la regista – chi in Egitto, in Arabia Saudita, chi in Ciad o in Ghana, ci sono 3 milioni di rifugiati». Il documentario parla dei giovani che hanno accettato di raccontare le loro storie davanti a una camera fissa.
«Tutti i miei film sono personali –afferma Hind – non hanno niente a vedere con il caso, non cerco mai qualcosa che non mi appartiene. Ho fatto un lavoro sull’Egitto perché mia madre viveva al Cairo, mi occupavo di cinema per Arte e così ho conosciuto un regista che mi ha portato dentro un matrimonio, dove ho conosciuto il fenomeno dell’elettrochaabi. Mio padre nel frattempo era in Tunisia, sentivo sempre questo pezzo Messieur Le President , un’invettiva diretta a Ben Ali, ed ero talmente affascinata da questo rapper che quando la rivoluzione è cominciata ho voluto incontrarlo”. Hind Meddeb non si definisce un’esperta di musica: «La musica per me non è stata una scelta, solo un caso – spiega – nel mio film egiziano c’è techno perché è quella che si suona nei matrimoni, io cerco e racconto soprattutto la gente». Oggi ci fermiamo qui, ma le recensioni continuano.