Ci avevamo sperato fino all’ultimo. La nostra fiducia si è dissolta con una mail: «Cari amici di Africa, da settimane attendo invano dalle autorità competenti un riscontro alla mia domanda per il visto d’ingresso. Malgrado abbia consegnato tutta la documentazione richiesta nei tempi previsti, nessuno si è degnato di risposta. Sono costretto a rinunciare alla partecipazione al vostro seminario. Vi ringrazio per averci provato. Eustache».
Eustache Tanganika Kakisingi è un attivista congolese per i diritti umani. Vive a Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, dove gestisce un piccolo ospedale che offre assistenza alle vittime di violenza. Al nostro evento di novembre a Milano, “Dialoghi sull’Africa”, Eustache avrebbe offerto una testimonianza sulla sanguinosa – e silenziosa – guerra che da anni tormenta le popolazioni del Kivu. Per ottenere il visto aveva presentato quanto richiesto da normative sempre più stringenti: biglietto aereo di andata e ritorno, lettera d’invito, garanzie bancarie, ricevute di prenotazioni alberghiere e altro ancora. Non è bastato. E il suo non è un caso isolato. Ogni giorno l’ingresso nella Fortezza Europa viene impedito – per cavilli, indolenza o accertato ostruzionismo – a imprenditori, artisti, sportivi, musicisti e accademici africani che avrebbero le carte in regola per muoversi nel vecchio continente.
Pochi giorni prima, era toccata a una manager nigeriana, Elizabeth Kperrun, la medesima sorte di scontrarsi con i muri della nostra burocrazia: avrebbe dovuto ritirare a Milano un prestigioso premio per l’innovazione sociale attraverso le nuove tecnologie. Poche settimane fa mi trovavo su un aereo partito da Bruxelles e diretto ad Abidjan. Accanto a me, una donna con l’aria disperata e gli occhi lucidi. «Dovevo andare in Italia a trovare mia sorella che abita a Venezia – mi ha raccontato –. Avevo il visto sul passaporto ma, giunta in Belgio, sono stata bloccata alla frontiera e rispedita indietro… I poliziotti non credevano che una donna ivoriana avesse la possibilità di farsi una vacanza in Italia. Non è servito esibire il mio stipendio da bancaria, le prenotazioni dell’hotel già pagate, il biglietto di ritorno, le lettere referenziate dei miei garanti. Mi hanno contestato che non avevo una guida turistica di Venezia… Ma che razza di motivazione?!…».
Se agli agenti di frontiera africani fosse concessa la stessa discrezionalità con cui i loro colleghi europei accettano o rifiutano l’ingresso di uno straniero, be’, per noi bianchi viaggiare in Africa diventerebbe un incubo. Chissà cosa accadrebbe se i governi africani applicassero rigidamente il principio di reciprocità per concedere – o meglio, negare – i visti d’ingresso. Pretenderebbero lettere d’invito, garanzie bancarie, impronte digitali, prenotazioni alberghiere, interrogatori in ambasciata. Terrebbero in sospeso le nostre domande per tempi lunghissimi e indefiniti. E spesso opporrebbero il rifiuto con il più banale dei pretesti. Allora cominceremmo a vedere l’intera faccenda da un altro punto di vista.