Mai sentito parlare di sprawl? Forse no, eppure tutti ne hanno avuto la percezione, specialmente entrando o uscendo da molte città. Il significato letterale della parola è distendersi o sdraiarsi, ma nel lessico dell’urbanistica indica la crescita disordinata di una città nella sua prima periferia. Accade nella nostra Italia, con le distese di capannoni artigianali che devastano il nord-est, e accade sempre più spesso nelle città africane, i cui margini si trasformano da un giorno all’altro, allargando l’impronta urbana a macchia d’olio.
Il confine fisico fra città e campagna è sempre meno netto e più frastagliato, una sterminata area di transizione in cui edifici in costruzione, ruderi, grigi muri di recinzione, orti o piccole discariche si alternano senza soluzione di continuità. L’occupazione progressiva dei terreni può avere sviluppi diversi, solitamente inizia ai lati di una strada principale per poi espandersi con strade secondarie ma non di rado si creano “isole” costruite alternate ad aree agricole ancora vuote. Quasi sempre vale la regola per cui a un lotto recintato o a un edificio costruito se ne affiancheranno ben presto altri, fino alla saturazione degli spazi liberi. Lo sprawl urbano (nella foto in evidenza, la periferia di Goma, nella Repubblica Democratica del Congo) ha ricadute ambientali gravi: determina consumo di suolo, impermeabilizzazione, spreco di risorse e indirettamente maggiori necessità di spostamento con mezzi inquinanti. Quando poi lo sprawl è associato all’assenza di pianificazione strategica può compromettere seriamente ecosistemi delicati e preziosi aumentando il rischio idrogeologico non solo per i quartieri di nuova costruzione ma per l’intera città. L’impatto più grande dello sprawl è però quello sulle infrastrutture e sull’offerta di servizi. Non solo scuole e strade, ma soprattutto reti idriche, energetiche, fognarie o di comunicazione, servizi spesso già gravemente insufficienti che sono costretti a svilupparsi su distanze sempre più grandi: l’aumento dell’estensione significa maggiori difficoltà nella pianificazione e nella progettazione, tempi più lunghi, costi ben più alti e maggiore manutenzione.
Se i rischi e gli impatti sono notevoli non bisogna fare l’errore di guardare alle aree di transizione esclusivamente come a una fonte di problemi: resilienza e creatività interessano anche questi luoghi, dando vita a soluzioni informali, nuove attività e risposte adattive ai bisogni della popolazione. Un esempio interessante è quello delle attività legate alla produzione agroalimentare e al piccolo allevamento: nutrire una popolazione urbana in continua crescita è sempre più complesso e richiede sistemi di distribuzione organizzati che interessano spesso città secondarie e aree rurali anche molto lontane. Le piccole attività di agricoltura urbana diffusa che si diffondono nelle aree di transizione abbattendo i costi di trasporto verso la città risultano quindi molto competitive e rappresentano anche un importante presidio di salvaguardia ambientale. Questa mutevole “terra di nessuno” va quindi studiata e osservata con grande attenzione perché è proprio qui che fra sostenibilità, connessione e alimentazione si giocano le partite fondamentali per il futuro delle metropoli africane.
(Federico Monica, autore dell’articolo, sarà relatore del seminario, organizzato dalla rivista Africa, “L’Africa delle città”. Per info e prenotazioni, clicca qui)