di Gianni Bauce
Droni in volo sulla savana per scovare i bracconieri, coinvolgimento delle comunità locali nelle attività di conservazione, cani addestrati nel catturare i cacciatori illegali. Così le aree protette dell’Africa rispondono alla crescente minaccia della caccia illegale alla fauna selvatica.
In Africa la caccia di frodo continua a prosperare. A farne le spese sono numerose specie animali considerate pregiate dai bracconieri per l’elevato valore economico vantato nel mercato illegale. Vittime designate sono anzitutto i rinoceronti, i cui corni sono sempre richiestissimi – e pagati a prezzo d’oro – nella medicina tradizionale cinese e per la produzione dei pugnali yemeniti. Anche gli elefanti sono cacciati per via delle loro zanne – l’avorio alimenta il mercato dell’intaglio dell’Estremo Oriente, così come i pangolini, le cui scaglie sono usate, sempre in Cina, per preparare rimedi medicamentosi contro varie patologie.
In realtà, questo è soltanto uno dei volti del bracconaggio, che riguarda l’aspetto speculativo. Ma in Africa il bracconaggio si articola in molte altre forme, come il bracconaggio di sussistenza, condotto da membri delle povere comunità rurali per procurarsi proteine alimentari. Ciascuna di queste forme ha motivazioni, impatti e conseguenze differenti, e alcune di esse, pur restando pratiche intollerabili, risultano più comprensibili di altre.
Coinvolgimento delle comunità
Ed è proprio la comprensione delle motivazioni che spingono alla caccia illegale una delle nuove frontiere della lotta al bracconaggio, perché la mera repressione del crimine spesso equivale ad asciugare un pavimento sotto un tubo che perde: se non si individua la perdita e si ripara il tubo, non si risolve il problema. In questo, le autorità che amministrano i parchi e le riserve naturali sono sempre più attente a coinvolgere nella gestione delle aree protette le comunità che vivono in territori confinanti, affinché si sentano parte attive di uno sforzo di conservazione a beneficio di tutti. Si è rivelato un grande successo strategico: le comunità limitrofe alle aree di conservazione rappresentano il più grande bacino da cui le organizzazioni malavitose attingono la manovalanza per il bracconaggio, e portarle dalla parte della legge consente di prosciugare quel bacino e di creare, allo stesso tempo, una rete di intelligence e controllo che può affiancare efficacemente le forze dell’ordine.
Sul fronte opposto, le organizzazioni malavitose approfittano senza esitazione delle condizioni di povertà nelle quali molte comunità rurali si trovano, per reclutare bracconieri ai quali viene commissionato il lavoro sporco. Elevare il tenore di vita di tali comunità è uno dei principali obiettivi della lotta al bracconaggio, perché chi non è motivato da necessità di sopravvivenza risulta più restio ad abbracciare il crimine ed altre attività illegali. Sul fronte del contrasto attivo al bracconaggio, durante gli ultimi decenni si sono sviluppate strategie nuove, alcune di elevato contenuto tecnologico, altre più semplici ma ugualmente efficaci e, proprio come in ogni conflitto bellico, la corsa agli armamenti è sempre aperta, da un lato e dall’altro della barricata.

Battaglia nei cieli
La tecnologia dei droni si è affacciata sul settore già molti anni fa, ma la loro applicazione ha dovuto superare numerosi scogli prima di approdare a qualche successo. In Zimbabwe, per esempio, i primi tentativi di utilizzo di questi dispositivi per il pattugliamento delle aree di conservazione risalgono al 2015, quando nel Parco di Hwange furono fatti volare i droni inglesi prodotti da Air-Shepard. Il progetto tuttavia non decollò. Gli aeromobili a pilotaggio remoto erano particolarmente sofisticati e richiedevano piloti esperti, che in Zimbabwe mancavano. Oltretutto il parco in questione si trovava – come molti altri in Africa – in zone di frontiera, e ciò naturalmente comportava difficoltà operative.
Il progetto venne ripreso anni più con droni di produzione locale, con limitata autonomia di volo ma estremamente semplici da pilotare e da trasportare, grazie alle loro ridotte dimensioni. Ovviamente quelle macchine volanti non riuscivano a pattugliare vaste aree, nondimeno si rivelarono piuttosto efficaci: le pattuglie di ranger, infatti, potevano trasportare il drone, le batterie di riserva e un sistema di pannelli fotovoltaici flessibili che potevano essere stesi sullo zaino anche durante la marcia, assicurando la ricarica delle batterie. Inoltre, dopo un breve corso ogni ranger era in grado di pilotare l’“occhio volante” che permetteva di esplorare dall’alto un’area prima di esporsi nell’attraversarla. Inoltre, grazie a telecamere a infrarossi risultò possibile “vedere al buio” anche di notte, individuando facilmente qualsiasi forma di vita nell’area operativa del drone.
Individuare preventivamente i pericoli o addirittura i bracconieri si rivelò uno strumento efficientissimo nella lotta al bracconaggio, e le autorità registrarono un numero impressionante di arresti. Sul fronte opposto, in questi anni anche i bracconieri si sono adeguati e, oltre a reagire aprendo il fuoco sui droni, alcune organizzazioni si sono a loro volta dotate di droni. Ecco perché l’utilizzo di droni non autorizzati è proibito su qualsiasi area di conservazione e ogni drone “alieno” individuato viene prontamente abbattuto e sequestrato. La strada è ancora lunga, ma oramai aperta, e questa tecnologia sta prendendo sempre più piede.

Ranger speciali e intelligence
Meno tecnologico, comunque straordinariamente efficiente, si è rivelato l’uso delle unità cinofile, le cosiddette K9, che utilizzano determinate razze di cani per prevenire e reprimere il bracconaggio. Il Malinois noir, una razza di pastore belga, è il cane più utilizzato in questo tipo di operazioni. Con una carriera di successo nell’ambiente militare e della sicurezza, il Malinois viene impiegato per seguire tracce umane e catturare e immobilizzare individui sospetti, nonché rilevare carichi illegali di merce organica quali avorio, corni di rinoceronte e altre parti animali. Le doti atletiche ed operative di questi cani, come pure la dedizione al loro compito, sono straordinarie.
Per un bracconiere in fuga non ci sono speranze se alle calcagna gli viene lanciato un esemplare opportunamente formato. A beneficiarne sono anche i corpi speciali preposti a contrastare e reprimere il bracconaggio, come quelli formati e sostenuti da The Tashinga Initiative (tashinga.org), un’importante organizzazione conservazionista dello Zimbabwe, attraverso il programma “Ranger Protect” (rangerprotect.com) condotto in collaborazione con la Game Rangers Association of Africa (gameranger.org). Tutelare, motivare e addestrare i ranger, fornendo loro tutto il supporto possibile: solo così si può pensare di vincere la battaglia contro le grandi centrali del bracconaggio che hanno la capacità di dispiegare sul campo non soltanto uomini reclutati tra le comunità affamate, ma anche mercenari ben addestrati ed equipaggiati.
Sul delicato fronte internazionale, insieme ad organizzazioni mondiali quali il Cites riscuotono quindi grande successo le operazioni di intelligence condotte in sinergia dalle forze dell’ordine di più Paesi, perché il bracconaggio è soltanto la mano sporca del traffico internazionale di parti animali, gestito da organizzazioni potenti e dalla grande disponibilità economica. In tale contesto, l’Interpol gioca un ruolo molto importante, coordinando le forze dell’ordine di più Paesi al fine di intercettare e interrompere i grandi flussi internazionali di merci illegali e relativo denaro.

Per approfondire l’argomento, segnaliamo il libro “In difesa dei mondi perduti” di Gianni Bauce (Rosenberg & Sellier), l’autore di questo articolo, guida naturalistica operativa in Zimbabwe, che sviscera nel dettaglio l’intricato mondo del bracconaggio e del traffico che lo alimenta.
Questo articolo è uscito sul numero 5/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.