Esattamente un anno fa, un convoglio delle Nazioni unite partito da Goma, sulla riva settentrionale del Lago Kivu in Repubblica democratica del Congo (Rdc), veniva attaccato da un gruppo di uomini armati in quella che ha tutte le caratteristiche dell’imboscata. Una strada incerta, la fitta vegetazione tutto attorno, un’area poco sicura parzialmente sotto il controllo di ribelli e gruppi armati, numerose precedenti imboscate proprio in quella zona, proprio su quella strada, proprio contro le Nazioni unite. Nell’attacco del 22 febbraio 2021 perdono la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.
di Andrea Spinelli Barrile
Due dei testimoni oculari, entrambi funzionari del Programma alimentare mondiale facenti parte del convoglio sui cui racconti è stata ricostruita la dinamica ufficiale dell’attacco, sono ad oggi indagati dalla procura di Roma per “omessa cautela” perché non avrebbero messo in campo le necessarie tutele volte a garantire l’incolumità dell’ambasciatore e del convoglio delle Nazioni unite su cui viaggiava, in un’area e lungo un percorso notoriamente pericolosi. Tra loro, il vicedirettore del Programma alimentare mondiale in Rdc, Rocco Leone. Un fatto grave, cui come ha ricordato Giusy Baioni ad Africa Rivista, si aggiungono i documenti ufficiali della missione, “manipolati” e che non indicavano la presenza dell’ambasciatore e del carabiniere di scorta.
La collaborazione tra la procura di Roma, il dipartimento di sicurezza delle Nazioni unite e il Pam non è stata tuttavia sempre semplice e più volte i magistrati romani si sono scontrati con i silenzi interni e i rallentamenti dell’agenzia Onu.
Le indagini congolesi invece hanno prodotto due arresti, “una messinscena” secondo la famiglia Attanasio: due uomini, membri della banda Aspirant il cui capo però è ancora latitante, che avrebbero anche confessato il tentativo andato a male di rapire l’ambasciatore, per chiedere poi un riscatto di 1 milione di dollari. Una tesi simile a quella della procura di Roma, che tuttavia sostiene che gli assalitori puntassero a 50.000 dollari, ma che come questa si indebolisce proprio se si guarda all’aspetto economico perché cifre simili, in un contesto di guerra e di clandestinità, servono a poco agli stessi gruppi armati.
Quello che di certo sappiamo sulla vicenda che ha portato alla morte di Attanasio è una sola cosa: che Attanasio, Iacobacci e Milambo sono morti di morte violenta. La dinamica, gli autori, il contesto, tutto il resto è avvolto in una coltre di fumo fatto di informazioni parziali, arresti arbitrari, impossibilità di verifica, depistaggi.
A un anno di distanza da quella strage la situazione nelle province orientali della Repubblica democratica del Congo è sempre più critica e, con essa, lo stato dell’arte delle indagini sui responsabili. Da poche settimane è in vigore lo stato d’emergenza, decretato dal governo di Kinsahsa per fronteggiare la grave minaccia rappresentata da decine di gruppi armati, banditi, politicizzati o fanatici religiosi. Una minaccia che continua ad aumentare, giorno dopo giorno, nonostante i fatti di un anno fa e la presenza della missione dei caschi blu della Monusco.
In particolare, dall’inizio del 2022 sono centinaia i civili che hanno perso la vita per mano dei miliziani, qualunque sia la sigla sotto la quale operano, e a migliaia sono sfollati dopo aver visto la loro casa bruciare. La Rdc ospita uno dei più alti numeri di sfollati al mondo e il più grande del continente africano: secondo le Nazioni unite, il Paese ha 5,5 milioni di sfollati interni, circa 1,2 milioni di rimpatriati e 517.140 rifugiati e richiedenti asilo provenienti dai paesi vicini. Nel solo 2021, si stima che 1,5 milioni di persone siano state sfollate principalmente a causa di attacchi, scontri armati o controversie territoriali e intercomunitarie.
Sono oltre 100 i gruppi armati attualmente attivi in Repubblica democratica del Congo: secondo il Kivu security tracker, una Ong che monitora la violenza nell’est della Rdc, le Forze democratiche alleate (Adf), le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), l’Alleanza dei patrioti per un Congo libero e sovrano (Apcls) e il Nduma defense of Congo-rénové (Ndc-R) sono responsabili per oltre un terzo degli incidenti nel Paese e della metà dei civili che vengono uccisi. E poi c’è il Codeco, che i servizi di sicurezza americani indicano essere la colonna dello Stato islamico nella zona dei Grandi laghi. Tra questi gruppi, probabilmente tra le fila dell’Adf, il più mortale, probabilmente ci sono gli assassini di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Nell’arco del 2021, nella stessa zona dove sono morti Attanasio, Iacovacci e Milambo, sono stati uccisi altri 7 operatori umanitari delle Nazioni unite: tre nel Nord Kivu, due nell’Ituri, uno nel Sud Kivu e uno in Tanganica. Si sono inoltre verificati almeno 292 incidenti, secondo un rapporto del Coordinamento per gli affari umanitari dell’Onu (Ocha), che hanno ferito 29 operatori e visto il rapimento di altri 25.
Una situazione di crisi che ha più fronti, a migliaia di chilometri di distanza: se il fronte orientale congolese piange il fronte politico e militare a Kinshasa certamente non ride. Il 5 febbraio scorso Francois Beya, il consigliere speciale per la sicurezza del presidente Felix Tshisekedi, l’uomo chiave nel sistema di sicurezza congolese, tanto da essere soprannominato “Monsieur security”, è stato arrestato e da allora è agli arresti, accusato di “azioni contro la sicurezza nazionale”. La Presidenza ha affermato che nel comportamento del capo della sicurezza sono state rilevate “gravi indicazioni che attestano azioni contro la sicurezza nazionale”, ma non sono stati forniti dettagli in merito a questa potenziale minaccia. Beya, che in 30 anni di carriera ha servito Mobutu, Kabila padre e figlio e ora Tshisekedi, divenuto sotto quest’ultimo il capo del Consiglio di sicurezza nazionale che sovrintende tutti i servizi di intelligence e ha avuto un ruolo fondamentale di collegamento tra il nuovo presidente e il suo predecessore, Joseph Kabila.
Questa situazione ha provocato uno stallo nel comparto politico-militare congolese, apparentemente risolto il 17 febbraio da un comunicato stampa degli ufficiali generali, anziani e subalterni dell’esercito e della polizia, riunitisi alla Presidenza davanti a Felix Tshisekedi, in cui l’esercito ha ribadito la propria fedeltà alle istituzioni ed al presidente, che ha chiesto loro “riservatezza nel dibattito politico”. Ma la situazione nell’est resta critica, perché mentre a Kinshasa l’esercito si affiancava nuovamente al presidente nell’Ituri tre ex-leader ribelli inviati proprio da Tshisekedi come mediatori con i miliziani del Codeco venivano rapiti dalle milizie con cui dovevano trattare. Spariti nella foresta.
La situazione nella regione è critica e l’insicurezza riguarda tutti: il 2 febbraio padre Richard Masivi veniva assassinato nella sua parrocchia a Kanyabayonga, dieci giorni dopo i miliziani del Codeco attaccavano un campo profughi uccidendo 50 persone e gli attacchi ai villaggi sono una costante quotidiana, a ritmo di due-tre al giorno. Attacchi violenti, che durano ore e che lasciano sul terreno solo cenere di case e cadaveri di persone.
In questo contesto critico, in cui l’autorità militare della Repubblica democratica del Congo e le istituzioni congolesi non riescono a garantire la sicurezza nemmeno nei campi profughi ufficiali, nemmeno agli operatori delle Nazioni unite, è quantomeno ottimistico pensare che le indagini sulla morte di Attanasio possano essere condotte con professionalità e rigore. Ed è altrettanto ottimistico pensare ad una seria rogatoria internazionale da parte degli inquirenti italiani, tantopiù che la zona dove è avvenuto l’omicidio è oggi ancor più pericolosa che all’epoca.
Se la morte di Attanasio oggi può produrre qualcosa di positivo, questa è l’attenzione sulla regione orientale della Repubblica democratica del Congo. L’ultima volta che il Paese era stato così presente sui giornali europei era il 2018, quando il dottor Denis Mukwege ritirava il Nobel per la pace a Oslo con la yazida Nadia Murad. In quell’occasione Mukwege aveva lanciato l’ennesimo, inascoltato, appello alla comunità internazionale affinché agisse presto nell’est del Congo, dove la frammentazione dei gruppi armati e la diffusione dell’islam più radicale in alcuni di questi avrebbe presto causato nuovi, grandi, problemi alla zona africana dei Grandi laghi. Un appello inascoltato ma che la morte di Attanasio ha duramente riportato all’attenzione di tutti come di una grande urgenza, in un Paese dove la crisi di sicurezza è politica, militare e istituzionale.