Pesantissimo bilancio per le alluvioni che hanno sconvolto nel weekend il cuore dell’Africa. Almeno duecento morti, e tra loro i minatori rimasti sepolti dalla frana che si è verificata in una miniera illegale di diamanti nella provincia di Kasaï. È l’ennesima tragedia nella Repubblica Democratica del Congo, uno stillicidio di incidenti mortali che ogni anno falcidiano i lavoratori artigianali dell’industria estrattiva.
Testo di Marco Trovato – foto di Marco Gualazzini
Oggi sarà una Giornata di lutto nazionale per la Repubblica Democratica del Congo. Il colosso dell’Africa centrale – cuore malato del continente – si ferma per onorare le oltre 200 vittime dell’alluvione che nel corso del weekend ha spazzato via strade e villaggi nelle regioni centrali e orientali del Paese.
Nel drammatico bilancio reso noto dalle autorità vanno aggiunte almeno 6 persone rimaste uccise per una frana che si è verificata nella giornata di ieri in una miniera illegale di diamanti nella provincia di Kasaï.
I minatori sono stati sepolti vivi dalla terra e dal fango che ha riempito il cunicolo in cui si erano calati per cercare le pietre preziose. È l’ennesima tragedia, uno stillicidio di incidenti mortali che ogni anno falcidiano i lavoratori artigianali dell’industria estrattiva.
Il Congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Il governo di Kinshasa controlla solo una piccola parte dei siti estrattivi dati in concessione ad aziende occidentali, cinesi e russe.
Nel cuore della foresta, fitta e impenetrabile, si trovano centinaia di miniere artigianali – il cui sfruttamento è conteso da politici corrotti, militari collusi e signori della guerra.
Sono loro a spingere la popolazione locale, uomini donne, e anche bambini, a lavorare in condizione estreme per estrarre oro e diamanti. Ma anche cobalto, rame e coltan, tre minerali che stanno alla base della transizione energetica e tecnologica. Metalli strategici – richiestissimi dall’industria dell’hi-tech e dell’automobile.
Le miniere illegali sembrano grandi formicai: un groviglio di cunicoli e rivoli, venature e avvallamenti all’interno dei quali i minatori si muovono come automi, sotto il peso dei sacchi e dei badili che lavorano incessantemente e senza sosta. Li vedi uscire dai budelli di terra con il volto sporco ed esausto, una pila attaccata sulla fronte che gronda sudore. Si arrampicano sulle pareti limacciose che franano sotto i loro piedi.
È un brulicare continuo, ininterrotto, di gente che scava, setaccia, smuove sassi e detriti. Dieci, dodici ore di lavoro. Sperando di uscirne vivi. A fine giornata dormiranno esausti in tende e baracche. Mangeranno polenta di manioca e banane fritte.
Per loro, oggi non sarà una Giornata di lutto nazionale. Come sempre, si sveglieranno all’alba per discendere nuovamente in quelle voragini ciclopiche, veri e propri gironi danteschi in cui finiscono – e talvolta rimangono inghiottiti – gli schiavi moderni.