Non si ferma, anzi, sarebbe addirittura in espansione il commercio illecito dell’oro estratto dalle miniere artigianali della Repubblica Democratica del Congo. La spoliazione delle risorse naturali del gigantesco territorio, sebbene denunciata ormai infinite volte, da decenni, continua indisturbata.
Torna in questi giorni sull’argomento l’organizzazione Impact, con sede in Canada, nel rapporto Les intermédiaires, in italiano Gli intermediari. Come indicato nel titolo, il documento dedica particolare attenzione alla catena che collega i minatori agli acquirenti. Una catena che di fatto rende nulli, o quasi, gli sforzi compiuti per mettere ordine e legalità nella filiera.
«Il governo congolese è intervenuto integrando il meccanismo di certificazione regionale (…) ed esige dagli operatori privati l’applicazione delle linee guida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sulla cosiddetta due-diligence, la dovuta diligenza tra cui l’identificazione e la comunicazione dei rischi che circondano la catena di approvvigionamento, come violazioni dei diritti umani, corruzione o appropriazione indebita. I siti minerari devono essere ispezionati e se idonei, essere certificati come non ‘insanguinati’. Gli esportatori sono tenuti a dimostrare che l’oro prodotto è stato commercializzato in maniera responsabile. Ma negozianti e esportatori interessati a lavorare nei limiti legali si scontrano con difficoltà» denuncia il rapporto di Impact.
In primo luogo, la procedura di certificazione è laboriosa. Nel 2019, soltanto 122 dei 2.763 siti auriferi artigianali sono stati ispezionati, e tra questi, 106 hanno ottenuto la certificazione. C’è anche una moltiplicazione di tasse, che oltre a quelle centrali prevedono imposte provinciali e altri dazi per l’esportazione, che possono arrivare fino al 15% del valore, solo nel processo di commercializzazione. Il passo verso la legalizzazione è costoso, complesso, e poco vantaggioso per gli attori di questo commercio lucrativo. L’oro delle miniere artigianali, inoltre, è molto vulnerabile ai gruppi armati, che terrorizzano i minatori, impongono pagamenti, rubano e gettano un’ombra cupa su tutta la filiera.
«Aziende e persone si sono approfittate della non applicazione delle leggi anti-contrabbando e continuano a farlo, in tutta impunità» denuncia ancora il rapporto, sollevando un altro tassello di questa rete, ovvero la complicità, e/o negligenza, delle autorità. Soffermandosi sulle province nordorientali del Nord-Kivu, Sud-Kivu e dell’Ituri, le principali aree d’estrazione aurifera, Les Intermediaires dettaglia casi specifici di soggetti presumibilmente coinvolti nel traffico illecito, come ad esempio l’ufficio di compravendita Namykaya, di Evariste Shamamba, a Bukavu, o le società fantasma Congo Golden Mining Ltd. e Omega Gold Mining Ltd. reperibili solo in documenti di transito ruandese.
Il Rwanda, infatti, secondo gli autori del rapporto, è diventato il principale centro di transito dell’oro congolese, dopo che il Burundi ha perso terreno dal 2015, sia a causa delle tensioni interne che dell’uccisione del generale Adolphe Nshimirimana, che secondo il gruppo d’esperti delle Nazioni Unite era considerato il protettore di alcuni fra i più grandi contrabbandieri del Paese. Il Rwanda si vanta ormai di essere tra i più importanti esportatori regionali dell’oro e nel 2019 ha aperto la prima raffineria, Aldango, in grado di raffinare 22 chili al giorno, sei tonnellate al mese. Numeri contraddittori mettono in evidenza un commercio opaco: secondo il gruppo d’esperti delle Nazioni Unite, il Rwanda ha ufficialmente esportato 2.163 chili d’oro nel 2018; eppure, 12.539 chili d’oro importati dagli Emirati Arabi Uniti sono stati dichiarati d’origine ruandese. Quale sia la reale provenienza degli altri 10.000 chili resta quindi di fatto un mistero.
È per definizione impossibile stabilire con precisione il volume d’oro esportato clandestinamente dalla Repubblica Democratica del Congo. Un’idea di massima della produzione si trova in un’analisi dell’istituto tedesco per le scienze geologiche e le risorse naturali (Bgr), e sarebbe compresa tra 15 e 22 tonnellate all’anno. Una stima del volume ufficialmente esportato si può dedurre invece attraverso l’ammontare delle tasse percepite; secondo valutazioni prudenti effettuate dallo stesso Bgr, 15 tonnellate vendute in un anno rappresenterebbero un valore di 543 milioni di dollari di fatturato, che tassati al 2% come da legge, farebbero entrare nelle casse dello Stato 10,86 milioni. Guardando poi ai pochi numeri del ministero delle miniere a disposizione, nel 2018 sono stati esportati solo 56,18 chili di metallo prezioso, che rappresenterebbero solo poco più di 44.000 dollari di introito fiscale sulla vendita.
La malagestione del commercio dell’oro può essere declinata nelle tante altre risorse di cui è ricchissimo il sottosuolo congolese: rame, cobalto, coltan, cassiterite, diamanti, per citare i principali. Di recente Global Witness è tornata sul caso del milionario Dan Gertler, protagonista del settore minerario nell’ex Zaire. Un uomo d’affari israeliano molto vicino a Joseph Kabila, che nel 2017 ha visto i suoi conti negli USA congelati per reati di appropriazione indebita, evasione e corruzione. Il businessman avrebbe aggirato il problema e continuerebbe a fare affari illeciti grazie alla potente rete di traffico internazionale che lo appoggia.
Nonostante i riflettori si siano accesi da tempo sulla questione, è ancora, ahimè, molto attuale la storica «maledizione delle risorse» del gigante africano.
(Céline Camoin)