RD Congo: luce nel “cuore di tenebra”

di AFRICA

Da vent’anni frère Richard Hardi, medico oftalmologo ungherese, si sposta nella selva congolese e raggiunge i villaggi più sperduti, per tentare di salvare la vista a persone altrimenti condannate a vivere nel buio.

La colonna dei portatori si fa strada nel groviglio di arbusti e avanza ostinata nella foresta pluviale; sulle teste degli uomini ondeggia il carico di viveri, attrezzature e medicine. Sembra una scena d’altri tempi, ma a guidare la spedizione non c’è un esploratore o un cacciatore di schiavi.

L’uomo bianco al centro della carovana è Richard Hardi, un oculista ungherese che da vent’anni si è trasferito a vivere nel cuore della Repubblica democratica del Congo. «Quando giunsi qui, la nazione si chiamava ancora Zaire ed era governata con pugno di ferro dal dittatore Mobutu Sese Seko, che per decenni aveva saccheggiato impunemente le ricchezze statali, condannando la popolazione a vivere nella miseria più cupa», racconta il dottore. «Avevo in programma di fermarmi pochi mesi, per vivere un’esperienza di volontariato nel Sud del mondo… Ma ho deciso di non fare più ritorno in Europa».

Cecità dei fiumi

A convincerlo sono state le decine di migliaia di persone che ogni anno perdono la vista in questa sperduta regione dell’Africa. «Un cittadino congolese, a causa delle precarie condizioni sanitarie e socioeconomiche, ha dieci probabilità in più di perdere la vista rispetto a una persona che vive nei Paesi industrializzati – spiega –. A spegnere gli occhi sono malattie potenzialmente curabili come la cataratta (una progressiva opacizzazione del cristallino), il glaucoma (causato dall’aumento della pressione interna dell’occhio) o l’oncocercosi, detta anche “cecità dei fiumi”».

Quest’ultima patologia è provocata dalla puntura della mosca nera che vive nei pressi dei fiumi, largamente presenti all’interno della foresta. È un’infezione parassitaria guaribile se trattata con un certo numero di farmaci adeguati, in mancanza dei quali, invece, può causare la cecità permanente. «Nell’80 per cento dei casi, questa evenienza può essere evitata, a condizione che si intervenga tempestivamente».

Niente può fermarlo

Richard Hardi, laureatosi a Budapest in oftalmologia con una specializzazione in malattie tropicali, ha preso casa a Mbuji-Mayi, capoluogo della provincia del Kasai Orientale. È un missionario, un “fratello” della Comunità delle Beatitudini, una delle più importanti “nuove comunità” nate in Francia, negli anni Settanta, nel solco del Rinnovamento carismatico cattolico. Per lui la dimensione spirituale è dunque fondamentale, e non si riduce certo al disco di canto gregoriano che fa ascoltare nella sala operatoria della clinica oftalmologica Saint Raphaël di Mbuji-Mayi: «Serve solo a creare un’atmosfera di distensione… e produce un effetto formidabile».

Il suo umile alloggio – che all’occorrenza funge anche da ambulatorio e laboratorio – è in realtà un semplice pied-à-terre, una base da cui partire per frequenti missioni nel folto della selva. «Cerco di raggiungere i villaggi più isolati – chiarisce –. Una larghissima fetta di popolazione congolese, che vive lontano da tutto e da tutti, è tagliata fuori da qualsiasi tipo di assistenza sanitaria, in particolare quella specialistica. E la Rd Congo, con l’1 per cento di popolazione non vedente, vanta un tasso di cecità tra i più alti al mondo».

Accompagnato dai collaboratori più stretti (un paio di infermieri locali e un fedele autista-meccanico), Richard percorre con un fuoristrada le tortuose piste congolesi. «Ma spesso le condizioni delle carreggiate sono talmente disastrate che dobbiamo proseguire a piedi». Basta un temporale per distruggere i fragili ponti in legno e trasformare le strade di terra battuta in micidiali torrenti di fango. All’oculista spesso non rimane alternativa che reclutare degli aiutanti per trasportare a mano le attrezzature mediche. Non è un carico di poco conto; il kit essenziale prevede: un microscopio portatile, gli strumenti di sterilizzazione, gli impianti oculari, i generatori di energia elettrica, una scatola di vecchi occhiali e un tavolo operatorio fatto a mano. «Scelgo con cura il luogo in cui allestire il campo-base – spiega l’oculista –. In genere si tratta di un villaggio che occupa una posizione strategica dalla quale posso raggiungere le comunità più piccole e isolate».

Anche in canoa

Per una delle ultime missioni – che abbiamo documentato attraverso il reportage fotografico di queste pagine – il dottor Hardi ha deciso di spostarsi a Pania, una manciata di capanne nel cuore della foresta, dove ha allestito un piccolo ospedale provvisorio. Da lì, ogni giorno, si è mosso con la sua équipe per cercare nella zona pazienti da curare. Per spostarsi ha utilizzato anche la canoa, con cui ha risalito il fiume Sankuru. Nell’arco di poche ore, l’imbarcazione si è riempita di gente affetta da problemi agli occhi e bisognosa di essere operata nella sala chirurgica allestita a Pania.

«Durante le prime missioni le persone erano diffidenti», ricorda Richard. «Ma ora sono piuttosto conosciuto e, come arrivo in una località, in poco tempo mi raggiungono decine di ammalati. Il fatto, poi, che io sia un religioso – posizione che però non sfrutto minimamente per fare proselitismo – accresce la fiducia delle persone. Me ne danno… fin troppa, e molti vorrebbero farsi operare anche quando è sufficiente un’appropriata terapia. Malgrado qui non esistano cellulari e giornali, le persone sono tempestivamente informate della mia presenza attraverso il “tamtam” della foresta… l’efficace passaparola che fa correre in fretta le notizie da un villaggio all’altro».

Stanco ma felice

Le visite possono protrarsi fino al tramonto. Alcuni hanno bisogno solo di una medicazione o di un paio di occhiali. Altri necessitano di antibiotici, garze o pomate disinfettanti. Ma la gran parte ha bisogno di un intervento chirurgico urgente. «Ci sono giornate interamente dedicate alle operazioni – spiega –. In un paio di giorni posso operare anche tra le cinquanta e settanta persone affette da cataratta… uomini e donne che arrivano in ospedale brancolando nel buio e se ne vanno via sorridenti e baldanzosi».

Le cure sono offerte gratuitamente, grazie al sostegno economico di una ong di origine belga, Lumière pour le monde, che finanzia l’attività incessante del dottor Hardi. «Finisco di lavorare a tarda notte, illuminando l’ambulatorio con la tenue luce di una lampada a petrolio. Vado avanti fino a quando le energie me lo consentono». La stanchezza è più forte del caldo opprimente e dei nugoli di zanzare che ronzano sul letto. «Appena tocco il letto, crollo esausto… ma soddisfatto. È la vita che ho scelto e non la cambierei per nulla al mondo».

Una vita in cui, però, fratel Richard non potrebbe fare a meno del suo quotidiano tempo di preghiera per ritemprare la fede. «La fede aiuta molto – sottolinea –, soprattutto a resistere nel tempo. Anche se, evidentemente, la fede in Cristo non è l’unica motivazione possibile per dedicarsi a fondo all’aiuto umanitario».

(Valentina G. Milani e Sophie Binoche – foto di Dieter Telemans/Panos Pictures/LUZ)

Condividi

Altre letture correlate: