Un bracciante trentenne di Foggia è stato ucciso a colpi di fucile da un agricoltore del Burkina Faso che lo aveva sorpreso a rubare meloni in un terreno di sua proprietà. Dieci ragazzini di origine africana hanno impedito con spinte e insulti a un cinquantenne di Cagliari di salire su un autobus pubblico: «Hai il colore della pelle sbagliato», gli hanno urlato. In un istituto superiore in Senegal uno studente, figlio di immigrati italiani, ha ricevuto lettere anonime piene di insulti razzisti: «Non c’è spazio per te in questa scuola».
Gli episodi qui raccontati sono successi realmente nelle scorse settimane. Le uniche informazioni errate sono i luoghi in cui sono avvenuti e le nazionalità di chi li ha vissuti: andrebbero scambiati tra loro per ricostruire l’informazione corretta. «Mettersi nei panni dell’altro» è un esercizio utile per coltivare l’empatia («sentire dentro»), ovvero la capacità di comprendere a pieno lo stato d’animo altrui. Fa parte delle attitudini umane, ma è una capacità che stiamo smarrendo. Di recente ho ricevuto tre lettere di viaggiatori italiani infuriati: tutti sfogavano la loro rabbia contro le norme imposte da alcune autorità africane per il rilascio del visto turistico sul passaporto. «L’Angola obbliga a lasciare le proprie impronte digitali all’ambasciata di Roma: assurdo e umiliante! Manco fossimo dei criminali». «Il Congo vuole vedere il mio estratto conto bancario per sapere se ho soldi sufficienti per viaggiare: sono impazziti?». «Il Ghana esige una lettera d’invito da parte di qualcuno che vive nel Paese: ma come pensano di incentivare il turismo se mettono tutte queste complicazioni?».
Invece di indignarci, proviamo a riflettere: i governi africani si limitano ad applicare (in forma peraltro ammorbidita) le stesse condizioni che l’Europa richiede ai loro cittadini. Le autorità europee pongono condizioni sempre più stringenti per concedere visti d’ingresso agli stranieri extracomunitari? «Non c’è problema: ci adeguiamo», rispondono i governi africani. È il principio della reciprocità. Può irritare, esasperarci. Ma può anche aiutarci a coltivare l’empatia.