Si chiama Iwacu ed è un quotidiano che si batte per la democrazia e la libertà d’informazione nel cuore dell’Africa. Sfidando un regime che non sopporta le voci critiche…
testo di Raffaele Masto – foto di Marco Trovato
Un lungo tavolo con una serie di computer allineati, riviste e fogli sparsi ovunque. E una decina di giornalisti intenti a scrivere. A vederla così, la redazione di Iwacu, l’unico quotidiano libero del Burundi, non sembra una minaccia per il regime di questo Paese che, secondo Reporter Senza Frontiere, si trova al 142esimo posto (su 180) nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo.
«Niente passi falsi»
Anche i redattori sembrano innocui: giovani, assorti sui loro monitor, vestiti in jeans e maglietta. Invece basta guardare la prima pagina dell’ultimo numero per capire che Iwacu è una spina nel fianco del regime e del Presidente Pierre Nkurunziza, al potere dal 2005 e quasi alla fine del suo secondo mandato. Campeggia il titolo a caratteri cubitali: «Ecco quaranta vite spezzate»; sotto, le foto dei giovani arrestati dalla polizia durante l’ultima manifestazione che chiedeva democrazia, trasparenza e giustizia sociale in vista delle prossime elezioni.
Chiedo ai giornalisti cosa si prova ad essere l’unica voce indipendente in un Paese come il Burundi: «Ci sentiamo addosso una grande responsabilità», mi dice Edouard Madirisha, maglietta bianca e giubbotto multitasche, il viso di un ragazzo sveglio e motivato. «Sappiamo che non dobbiamo fare passi falsi, altrimenti la nostra credibilità verrebbe azzerata, dobbiamo essere assolutamente attendibili».
Questioni delicate
Christian Bigirimana, responsabile delle inchieste, ha il volto serio: «La democrazia si costruisce con la consapevolezza dei cittadini – dice – e l’informazione è il mezzo con il quale possiamo rendere pubbliche prevaricazioni, corruzione e violazioni». L’unica donna in redazione si chiama Lyse Nkurunziza e si occupa di società. «Maneggio ogni giorno argomenti spinosi e delicati», spiega. «Perché parlare dei problemi dei trasporti e della sanità significa ricordare a tutti che lo Stato dovrebbe garantire diritti e servizi di base a tutti, anche ai più poveri».
Il direttore del giornale, Antoine Kaburahe, una quarantina d’anni, mi riceve dietro a una grande scrivania: adatta alla sua mole imponente. «In Burundi la situazione è molto complessa», attacca. «La fine della guerra non ha portato la democrazia e la partecipazione, e siamo ancora un Paese a rischio». Gli chiedo se a preoccuparlo è un possibile conflitto politico oppure la dinamica etnica, cioè l’opposizione tra Hutu e Tutsi che qui, come nel vicino Paese gemello, il Ruanda, ha avuto nel recente passato un peso enorme. Il direttore di Iwacu si fa serio: «Oggi il contrasto in Burundi è politico, per il potere, ma noi sappiamo bene che, in un Paese povero e fragile, dalla politica si passa facilmente alle divisioni etniche. Chi si batte per il potere non esita ad usare qualunque mezzo».
Una fragile protezione
Alla redazione di Iwacu sono già arrivate numerose intimidazioni, minacce, telefonate di protesta da parte di uomini influenti. Viene da chiedersi perché le autorità non abbiano ancora imbavagliato un giornale che denuncia misfatti e violenze del regime. Antoine sorride: «I costi per fare un giornale come il nostro non se li sobbarcherebbe nessuno oggi in Burundi, senza parlare, ovviamente, dei rischi politici. Economicamente abbiamo dei finanziamenti da alcuni Paesi del nord Europa e da alcune entità statunitensi. Il regime non può farsi troppi nemici internazionali e ci deve pensare due volte prima di chiuderci. Ma è ovvio che, se tapparci la bocca diventerà più utile che avere una buona diplomazia, non esiterà ad agire».
Suona l’interfono e Antoine risponde. La segretaria gli annuncia una visita e lui si appresta a salutarmi. Quando scendo alla reception c’è un capannello di persone. Un imprenditore impegnato a costruire il locale per le nuove rotative del giornale mi avvicina e mi mette in guardia: «Quell’uomo è in pericolo, non conviene stargli troppo vicino. È l’unica voce che infastidisce la classe politica. Non mi stupirei di vederlo saltare in aria».