I pastori sono alle prese con il progressivo inaridimento del loro territorio, dovuto al clima impazzito e all’impatto di nuove grandi opere. Una ricercatrice italiana ha studiato – camminando e ascoltando – la loro capacità di adattarsi ai mutamenti. Facendo scoperte che sanno di poesia
Siedo con Apa Aruk nell’ombra circolare di una grande acacia lungo gli argini di un wadi secco. Là dove l’ombra finisce, l’aria trema. Indica il cielo, color latte. Apa Aruk è uno dei più anziani di un villaggio nel cuore delle piane desertiche del Turkana centrale. «Devi camminare con Apa Aruk, se vuoi imparare dei nostri luoghi, della nostra storia», mi avevano suggerito degli amici turkana.
Camminare, qui, non è solo un movimento fisico. Camminare vuol dire osservare. Conoscere. Con Apa Aruk ho camminato lungo sinuosi fiumi invisibili, fra impronte di cammelli e capre. Lungo la strada in terra battuta, contando sacchi di carbone che aspettano di essere venduti. Aumentano quando la stagione secca avanza. Si accumulano l’uno sull’altro. C’è un ordine invisibile fra quei sacchi di carbone. Una legge di villaggio che ne regola la priorità.
Apa Aruk mi ha portato ai pozzi, alla scuola elementare, alle latrine costruite con aiuti umanitari – che nessuno, a parte me, usa. Camminando, Apa Aruk raccontava. La sua storia, i suoi ricordi. I cambiamenti della sua terra. Insegnava mentre io imparavo. E ora, all’ombra dell’acacia, guarda il cielo: «Ricordo un gioco che facevamo da bambini: rincorrevamo l’ombra delle nuvole. Giocavamo con il vento. Adesso non ci sono più nuvole e il cielo ha il colore del latte».
Emergenza continua
Il Turkana è una delle 47 contee del Kenya. Una terra arida, classificata come “semi-deserto”, soggetta a siccità ricorrenti – 5 negli ultimi 20 anni. La temperatura media è aumentata di 2 gradi fra il 1967 e il 2012, e le stagioni delle piogge si stanno accorciando. Conflitti con popolazioni confinanti, accaparramento di risorse, pascoli, acqua sono altre sfide per questa popolazione prevalentemente pastorale. E adesso c’è anche il petrolio che trivella la terra, la rompe, la frammenta, la divide, ne ostruisce il passaggio.
E poi c’è la diga. Quella diga. Un dinosauro di cemento che blocca il fiume Omo, ne beve l’acqua. Il Lago Turkana, un mare di giada, il più grande lago desertico al mondo, è alimentato al 90% dall’Omo, e nei prossimi anni sparirà – la stessa fine del Lago d’Aral in Asia centrale. Non è chiaro che ne sarà delle trentamila persone che hanno fatto del lago la loro vita, mescolando pesca e pastorizia e varie attività commerciali. Quasi ogni giorno, ormai da anni, quando siedo di fronte al computer leggo di problemi innumerevoli, cambiamenti, disastri che affliggono – mi immagino – le famiglie che mi hanno ospitato nelle loro capanne e condiviso il latte.
Nelle scorse settimane, dalle zone di Turkana e Baringo sono filtrate notizie della carestia in corso. L’assenza di piogge si protrae da un anno, allevamenti e raccolti sono andati perduti e almeno nove persone sono morte di fame. È la contea dove «quasi tutto è un’emergenza», secondo Peter Lokoel, vicegovernatore della nuova amministrazione del Turkana. Ma io credo ci sia dell’altro.
Come rughe sulla pelle
Ho vissuto 14 mesi nell’area del Lago Turkana per la mia ricerca di dottorato. Ho cercato di capire il significato di resilienza dal punto di vista dei pastori. Dal 2010 in Africa orientale è esploso il numero di programmi di cooperazione e sviluppo per building resilience – costruire resilienza. In psicologia, la resilienza è un concetto che indica la capacità di far fronte a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.
Che cosa vuol dire resilienza per un pastore turkana? Passati gli altopiani di Eldoret e Kitale, modellati secondo piani agricoli coloniali, si aprono le grandi distese desertiche. Con gli occhi di un uccello, seduta all’oblò di un piccolo aereo che connette Nairobi al capoluogo del Turkana, Lodwar, vedo la terra sottostante che si accartoccia. Come rughe sulla pelle di una vecchia signora, anse secche tagliano le savane dorate. Capanne dello stesso colore si perdono nel paesaggio, insieme ai cammelli.
Un altro modo di raggiungere il Turkana è la strada. Piccoli autobus, i matatu, partono da Nairobi il mattino presto e raggiungono Kitale la notte. Qui il viaggio si arresta fino all’alba. Un autobus o un pick-up partirà il mattino seguente sulle strade dissestate che si dispiegano da Marich Pass al confine fra le contee di West Pokot e di Turkana. Il paesaggio che velocemente scorre di fronte agli occhi trema all’orizzonte, dove il deserto incontra il cielo bianco.
Confini invisibili
Solo camminando, questa terra apparentemente monotona, di spine e polvere, vive di un altro sguardo. La complessità, dinamicità e ricchezza del paesaggio si manifesta agli occhi del viaggiatore come agli occhi del pastore. Nei miei mesi di ricerca sul campo ho vissuto con Apa Aruk, le sue tre mogli e innumerevoli figli. Con loro ho pascolato cammelli e capre. Con loro ho scavato pozzi. Raccolto bacche selvatiche e legna da ardere. Intrecciato foglie di palma per fare stuoie da vendere al mercato.
Un giorno aiutavo Akamaise, l’ultima delle tre mogli, a portare un sacco di 20 chili di carbone lungo la strada del villaggio più vicino, a una decina di chilometri. Deviamo perché vuol farmi vedere qualcosa. Indica un punto invisibile ai miei occhi. Niente lo differenzia dalla distesa di deserto che lo circonda. Ecco. «Qui voglio costruire il mio negozio». Mi ha spiegato che non ce ne sono altri, nei paraggi. Giustamente, penso io. Mi ha spiegato che quando piove e la strada dove stiamo andando non è percorribile, le macchine passano proprio di qui. Nel mezzo del nulla? Mi domando. E quando passano macchine, ci sono clienti. «E poi, le famiglie che vivono qui ne hanno bisogno».
Non avevo visto nessuno per giorni, a parte i membri della famiglia di Apa Aruk. Ma non avevo ancora cominciato a camminare. Guardando il Turkana camminandolo, non apparirà più uniforme, ma una regione dove molteplici ecosistemi s’intrecciano e abbracciano: le pianure, le montagne, le dune, i fiumi sotterranei, il lago, le foreste, i pascoli. Eterogeneità che scompaiono, nell’adozione di un modello geografico zonale che divide lo spazio in celle omogenee. Un mosaico di segmenti delimitati da confini invisibili. Ma sono confini friabili, mobili, e camminando per il Turkana se ne vedono le tracce. Segni lasciati dagli animali al pascolo. Passi di asini appesantiti dai bagagli di famiglie in spostamento. Scie di motociclette. Orme di cacciagione. Pile di sassi, santuari a protezione del cammino. L’intero paesaggio è una ragnatela di sentieri. Tramite la loro mobilità, i pastori rispondono alla variabilità del loro territorio, partecipano al suo continuo cambiamento. Qui l’idea del deserto come luogo vuoto e statico svanisce.
Calendario turkana
Cambiamenti socio-ecologici nascono dall’interazione fra uomini, animali, piogge, fiumi sotterranei, morfologia del terreno, piante, alberi, erba. Risorse che crescono, si deteriorano, fioriscono ancora. Tempi simultanei distesi sopra un’ecologia complessa a larga scala. Ci sono poi cambiamenti sociali, economici, politici. Il numero di veicoli che attraversano le strade dissestate. I programmi umanitari e la distribuzione degli aiuti. L’espansione delle città. La perforazione dei pozzi. La costruzione delle scuole. Il petrolio. La diga.
Così nascono e muoiono i villaggi. Così ci si sposta. Ci si inventa. Tramite la mobilità, variabilità e cambiamento diventano un’opportunità. E credo che questa sia una lezione importante, quando assistiamo alla costruzione di muri che frenano l’umano camminare. Tramite il camminare si legano insieme geografie diverse di uno stesso territorio. Come lo spazio, anche il tempo viene discusso nella sua puntiformità. Accanto a mappe, calendari e orologi. Ma in Turkana esistono molti tempi allo stesso momento, e il loro divenire genera movimento.
Ho provato senza successo a disegnare calendari delle stagioni. Ma non sono mai riuscita nemmeno a imparare l’ordine dei mesi, ogni volta modificati, mai uguali. Non c’è un novembre che sia uguale a ogni altro novembre. C’è invece un momento nel tempo in cui non piove, i baccelli cadono dalle acacie, e un forte vento fa volare tutte le foglie dagli alberi.
Sempre in movimento
C’è un momento in cui viene distribuito cibo nei villaggi, si compra il carbone, e ci sono i mercati. Tempo e spazio sono confluiti nella comprensione del cambiamento. E la luna segna il passare dei mesi.
Mi sono velocemente innamorata delle notti di luna piena. Non solo per l’alluvione di luce che trasforma l’oscurità in un gioco di ombre e fa brillare la sabbia; ma per l’importanza, l’eccitazione, e le aspettative che una notte di luna piena porta. Notte di danze, migrazioni, rituali e cerimonie, assalti ai gruppi pastorali nemici confinanti. Notte che segna l’inizio di un nuovo mese, quando i fratelli si scambiano animali da pascolare per avere un’istruzione completa sulle quattro gambe – capre, pecore, cammelli, e mucche.
Riprendo la strada con Akamaise verso il villaggio. Akamaise è una chiacchierona. Camminando mi indica i luoghi dove hanno vissuto. Dove hanno spostato la capanna, più o meno vicina alla strada in base a quante macchine si fermano a comprare carbone. Più o meno vicino al villaggio quando c’è la distribuzione di cibo. Più o meno vicino alle montagne quando l’erba per le mucche è alta. Mi racconta della nascita del villaggio, ma mi confida che la gente di questo posto non si ferma mai.
(testo di Greta Semplici – foto di Maurizio Di Pietro)