Alluvioni, siccità, invasioni di cavallette… Si moltiplicano gli allarmi dovuti al clima impazzito. Milioni di persone subiscono gli effetti devastanti di fenomeni meteo avversi, sempre più intensi e frequenti. Per non soccombere hanno una sola chance: occuparsi del problema
di Stefania Ragusa
Pochi dubbi al riguardo: il continente che meno ha concorso alla determinazione del cambiamento climatico è l’Africa. Per ironia della sorte (e ingiustizia della storia), sembra essere però proprio quello destinato a soffrirne di più. Tra i dieci paesi maggiormente colpiti al mondo dai cambiamenti climatici cinque sono africani: Mozambico, Zimbabwe, Malawi, Sud Sudan e Niger. Lo rivela l’ultimo rapporto Global climate index 2021. Gli altri paesi del mondo più vulnerabili sono Bahamas, Afghanistan, Giappone, India e Bolivia. Nel 2019, anno a cui si riferisce il rapporto, le nazioni africane hanno registrato, a causa di eventi atmosferici estremi, perdite per oltre 10 miliardi di dollari: dovute soprattutto allo sconvolgimento di settori economici chiave come l’agricoltura e ai danni arrecati alle infrastrutture, come le strade o le dighe. I disastri provocati dai cicloni Idai e Kenneth nel 2019, soprattutto in Mozambico ma anche in Zimbabwe e Malawi, sarebbero solo il preludio di quel che andremo a vedere nei prossimi anni.
Secondo Richard Washington, titolare della cattedra di Climatologia alla School of Geography and Environment dell’Università di Oxford, sono quattro i fattori che giocano a favore di questa previsione. Il primo: le diminuzioni più significative di precipitazioni, a livello mondiale, sono attese proprio in Africa, precisamente nel Maghreb e nella fascia australe. Il secondo: il clima del continente dipende da un mix complesso di sistemi meteorologici di cui alla fine si sa ancora poco: rispetto alle altre regioni abitate del pianeta, il continente africano rimane clamorosamente poco studiato.
Riduzione del danno
Il terzo: tanto a livello di governance quanto di scelte individuali, la capacità di adattamento ai cambiamenti climatici è debole. Il quarto: l’approvvigionamento di cibo da queste parti rimane strettamente legato alle precipitazioni. Se non piove non si mangia. Se piove troppo il raccolto marcisce e non si mangia ugualmente. Per scongiurare il peggio o almeno allontanarlo, sarebbe necessario quindi lavorare su questi quattro punti, in una prospettiva globale e africana. Bisognerebbe cioè andare ovviamente all’origine del problema (ma sappiamo quanto i Paesi e i soggetti massimamente responsabili della crisi climatica possano essere sordi da questo punto di vista…) e attrezzarsi per fronteggiare i sintomi, in un’ottica anche di riduzione del danno.
L’introduzione di colture diverse, o di specie geneticamente modificate, capaci di resistere meglio a siccità e alluvioni (sta accadendo per esempio in Mozambico, con gli anacardi) può essere una strada da percorrere. Ancora più importanti – e lo vedremo – sono però l’informazione e il coinvolgimento delle persone.
Effetto farfalla
Quante volte abbiamo sentito la storia del battito d’ali di un qualche animaletto in una parte del pianeta che provoca incredibili conseguenze in quella opposta? È quello che gli scienziati chiamano “effetto farfalla”. Se c’è un posto in cui esso risulta particolarmente vero e ricco di implicazioni, questo è il Sahara. Come rilevato da uno studio recente dell’Università del Maryland, coordinato dal professor Sumant Nigam, la sua estensione è cresciuta del 10% nell’ultimo secolo per effetto dell’aumento della temperatura. E ciò che accade tra le dune del deserto più grande del mondo, anche se non è ancora chiarissimo il perché, interferisce con il sistema dei monsoni, determinando siccità, carestie, decessi e,ça va sans dire, spostamenti di persone. Buona parte dei 50 milioni di profughi ambientali attesi per il 2050 saranno messi in moto proprio dal Sahara che avanza e dal Sahel che si ritira.
Per dovere di cronaca, ricordiamo che nel frattempo il Lago Ciad, posto al centro di questa zona di transizione e considerato una sorta di cartina di tornasole della crisi, si sta trasformando in un acquitrino. La sua superficie si è ridotta del 90%: dai 25.000 chilometri quadrati del 1960 siamo passati agli attuali 2500.
Piogge capricciose
Nelle regioni orientali del continente, da tempo la durata della stagione delle piogge va contraendosi: comincia più tardi e finisce prima. L’anno scorso, in Kenya, a metà aprile, non si era ancora vista una goccia d’acqua. Quando arrivano, però, le precipitazioni sono più intense e violente. Sui terreni arsi dal sole si riversano vere bombe d’acqua che non danno un contributo utile all’agricoltura e provocano danni gravi.
Le zone più esposte sono quelle che costeggiano i fiumi. Proprio qui le comunità pastorali e semipastorali tendono a spostarsi per abbeverare gli animali. Lo scorso anno, per dare un’idea, nel Sud Sudan è stato dichiarato lo stato di emergenza, con oltre 900.000 persone colpite dalle alluvioni. Gli scienziati hanno ribattezzato il fenomeno “paradosso dell’Africa orientale”: piove di più e più forte, ma la siccità complessivamente aumenta. E gli effetti si vedono. L’invasione di locuste del deserto che nelle scorse settimane ha razziato milioni di ettari di campi coltivati in Africa orientale e Corno d’Africa è stata favorita proprio dalle inedite condizioni climatiche. Una migrazione, secondo le Nazioni Unite, che il mese scorso ha raggiunto la dimensione di 100-200 miliardi di esemplari, partita dallo Yemen e diffusasi poi nel continente. La crisi ha riguardato Kenya, Somalia, Etiopia, Uganda e Nord della Tanzania. Risultato: «Oggi ci sono 13 milioni di persone in una situazione di insicurezza alimentare acuta nei luoghi colpiti dalle locuste», ha spiegato il capo degli affari umanitari dell’Onu, Mark Lowcock. E 20 milioni di abitanti si trovano in condizioni di insicurezza alimentare, per cui la situazione umanitaria potrebbe deteriorarsi ancora di più.
Foreste in pericolo
L’alterazione del ciclo delle piogge minaccia anche la foresta pluviale africana, secondo polmone verde del pianeta (pari a circa il 33% delle foreste tropicali della Terra), oggi a rischio quanto e forse più dell’Amazzonia. A metterla in pericolo, oltre al cambiamento climatico, sono anche gli interventi di sfruttamento su larga scala portati avanti dalle multinazionali con il placet dei governi, il disboscamento illegale (per esempio nella regione della Casamance, in Senegal) e pratiche agricole ancestrali come il “taglia e brucia”, usate per recuperare terreni coltivabili.
In quest’ambito si inserisce la violazione sistematica dei diritti dei pigmei, nome generico usato per indicare le comunità che vivono nelle foreste dell’Africa centrale, e che sono state fino ad ora le custodi di questo delicato e fondamentale sistema ecologico. Nell’estate del 2021, dal 21 al 26 agosto, sono stati documentati oltre 6902 incendi ai danni delle foreste in Angola e 3395 nella vicina Repubblica democratica del Congo. Il quadro è critico ma non riesce a essere chiaro: anche di questo sistema climatico si sa alla fine ben poco. Come rileva il professor Washington, ci sono più manometri nella contea britannica dell’Oxfordshire che nel bacino del Congo nel suo insieme.
Il modello Città del Capo
Più documentata è la situazione nel Sud del continente. Pure qui si registra la presenza diffusa del binomio siccità-alluvioni ed è previsto un forte aumento della temperatura nei prossimi decenni. A patirlo maggiormente saranno Namibia, Botswana e Zambia. Il quadro è serio anche in Sudafrica, come ha evidenziato l’emergenza idrica registrata lo scorso anno in particolare a Città del Capo, con lo spettro del Day Zero, il temuto momento in cui l’acqua non sarebbe più uscita dai rubinetti e che fortunatamente alla fine è stato scongiurato.
La risposta alla crisi idrica in quel caso è stata gestita a livello locale, passando attraverso il razionamento dell’acqua, accompagnato da un’azione capillare di informazione e coinvolgimento della popolazione. Per esempio, è stata realizzata una mappa della città che, con un gioco di colori, mostrava in quali vie venissero effettivamente rispettati i limiti. Sono state date indicazioni chiare e ragionate su cosa fare e cosa no. Secondo il Financial Times, pur essendo forte e tangibile a Città del Capo l’eredità dell’apartheid, il problema è stato vissuto come comune, superando le divisioni economiche ed etniche della città in nome dell’interesse generale.
Il ruolo della partecipazione
La capacità africana di adattamento ai cambiamenti climatici sarà anche debole a livello individuale, come si diceva in apertura. Una buona informazione e il coinvolgimento dei cittadini però possono fare la differenza. Lo dimostra il caso Città del Capo, ma, mutatis mutandis, qualcosa di simile è accaduto anche in Zimbabwe con il ciclone Idai. L’antropologa Shannon Morreira lo racconta in un articolo pubblicato sul sito Africa is a Country: di fronte ai ritardi e alle strumentalizzazioni della politica, la gente si è rimboccata le maniche e ha attivato tutte le risorse disponibili per aiutare i feriti e gli sfollati e per capire le ragioni di un evento così sconvolgente.
Va da sé che misure come queste siano tampone. Eppure il coinvolgimento della popolazione e la sua consapevolezza sono tasselli imprescindibili. Anche per raccogliere i dati che possono permettere alla comunità scientifica di sapere e capire di più. Esistono oggi tecnologie digitali che consentono di rilevare facilmente informazioni ambientali e di veicolarle verso terminali dove saranno rielaborate. Per ottenere risultati e conoscere meglio i sistemi climatici africani bisogna diffonderle. I piani su cui lavorare sono insomma diversi.
Hilda e Leah
Ci vogliono la scienza, la politica ma anche formazione e partecipazione locali, eventualmente incentivate e motivate da personalità in grado di fare proseliti e animare il dibattito. Hilda Flavia Nakabuye, per esempio. La studentessa ugandese che, ispirata da Greta Thunberg, si è messa in sciopero per salvare il Lago Vittoria soffocato dall’inquinamento, è stata chiamata a rappresentare i Paesi del Sud del mondo alla Nuit des idées di Parigi, una kermesse in cui intellettuali, artisti, architetti hanno preso la parola per immaginare il mondo di domani.
Hilda non è sola: sempre in Uganda, la quindicenne Leah Namugerwa (Africa 1/2020) da quasi due anni, ogni venerdì, salta la scuola con il permesso dei genitori e scende per le strade di Kampala a manifestare in favore dell’ambiente. Con il suo cartellone giallo («School strike for climate» c’è scritto col pennarello) si piazza agli incroci più affollati della capitale ugandese. Sguardo risoluto, indifferente al caos del traffico. «All’inizio la gente pensava che fossi una pazza – racconta con un sorriso –. Ora gli automobilisti e i motociclisti che mi vedono suonano il clacson in segno di appoggio alla mia battaglia». Grazie a ragazze come Hilda e Leah, ad altri tanti giovani e a un uso intelligente dei social network, i Fridays for Future sono arrivati anche in Africa. Grazie a loro, per i governi è oggi più difficile ignorare un certo tipo di richieste. Anche in Africa.
Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop