In questi giorni, ha destato scalpore mediatico la vittoria dei «sì» in un referendum sul matrimonio gay che si è tenuto in Irlanda. Le prime pagine dei giornali europei (italiani compresi) hanno aperto con la notizia e con foto. Nei giorni successivi, alcuni editorialisti sono tornati sul tema con analisi articolate. È invece passata quasi totalmente inosservata una notizia che, sul fronte dell’omosessualità, è forse ancora più rivoluzionaria: in Tunisia, l’associazione «Shams», nata per tutelare i diritti della comunità Lgbt, ha ottenuto il riconoscimento ufficiale a operare previsto dal ministero dell’Interno nell’ambito della legge sulle associazioni.
È una piccola rivoluzione in un mondo, quello arabo, che ha sempre trattato il tema delle coppie «diverse» con durezza e qualche dose di ambiguità. Il vicepresidente dell’associazione, Ahmed Ben Amor, ha dichiarato che ora la comunità Lgbt tunisina non si dovrà più nascondere e che, anzi, tutti i cittadini si dovranno unire nella lotta contro l’omofobia e per i diritti delle minoranze. Finora in Tunisia, i gay si sono mossi soprattutto sul Web, sfruttando l’anonimato della rete.
Questo riconoscimento rappresenta un’evoluzione, ma la strada verso la parità di genere, di tutti i generi, è ancora lunga in Tunisia. A preoccupare sono le critiche del mufti Hamda Sad, che in un comunicato, ha detto che Shams «si occuperebbe della promozione di una pericoloso deviazione dei valori e della natura umana» e ha invitato le autorità competenti a rivedere l’autorizzazione che «rappresenterebbe una minaccia alle generazioni future». Ma destano preocccupazione anche le numerose ambiguità nella legge tunisina perché lasciano spazio a incertezze interpretative e applicative. Senza contare che l’art. 230 del codice penale tunisino recita: «l’atto omosessuale maschile e femminile è punito con la reclusione fino a tre anni».