Mentre l’attenzione dei media internazionali torna a concentrarsi sul regime di Teheran (complice la tensione crescente con Usa e Israele), siamo andati in Iran a rispolverare una storia sommersa.
Nella città portuale di Bushehr, sulla costa sudoccidentale dell’Iran, al termine di una giornata afosa, la brezza serale induce a sedersi su una sedia fuori di casa, per godersi un po’ di frescura. Ed è quel che fa Ali, un cittadino iraniano dalla storia famigliare particolare. Il bisnonno, come altri nell’area, si recava spesso a Zanzibar. A fare incetta di schiavi. Era un noto mercante di perle preziose.
Ali vive ai margini di un quartiere della periferia asettica della città chiamato Behbahani. Un posto singolare. L’area conserva tenacemente le tracce della storia della città e accoglie i posteri di una vicenda poco conosciuta nella storia del Golfo: la schiavitù importata dall’Africa.
Danze spettacolari
«La maggior parte dei locali, specialmente i giovani, rimarrebbero sorpresi nel sapere che i loro vicini, i loro parenti o essi stessi sono i discendenti degli schiavi portati nella regione nel XIX secolo», spiega Ali. Come tante cose del passato, questo argomento è pubblicamente ignorato. Nonostante la loro apatia per la storia negriera, i residenti di Behbahani amano parlare della loro cultura folcloristica, e proprio su questo punto tutti insistono sul fatto che i ritmi e le danze tradizionali della città arrivino dall’Africa. «Ecco perché sono spettacolari», sottolinea Ali.
Da anni l’uomo cerca di mantenere vivo il folclore dell’area, facendosi il supervisore di un gruppo musicale tradizionale di ragazzi in maggioranza afro-iraniani. In soli due anni sono arrivati a suonare in festival nazionali e inoltre la band si è guadagnata vari titoli di giornali. Ali crede fermamente che la musica sia nel sangue dei suoi allievi.
Noi, Bambassi
Da uno stanzino vicino alla casa di Ali, le vibrazioni africane risuonano ogni giovedì sera. Qui la band viene a provare. Le movenze dei ragazzi sono energiche e ipnotizzanti. Mentre suonano, spesso si scambiano gli strumenti e danzano. Adham, l’impareggiabile ballerino dodicenne, si sfila dal gruppo per una breve pausa e racconta: «Siamo noi i primi a enfatizzare l’eredità africana dell’area: abbiamo chiamato la nostra band “Bambassi”, il nome con cui erano chiamati gli africani a Bushehr».
La falegnameria di Mohammad è uno dei principali punti di ritrovo sulla piazza centrale del quartiere. Mentre Mohammad lavora, i suoi amici di ogni età giocano a backgammon e discutono animatamente. L’artigiano produce infissi per le finestre tradizionali di Bushehr, su cui saranno successivamente montati pezzi di vetro colorati. «Queste finestre sono diventate popolari circa cent’anni fa, quando Bushehr era una città prospera, giusto prima della scoperta del petrolio!». Mohammad si riferisce con precisione al periodo in cui il lucroso commercio delle perle e dei datteri faceva salire la domanda di forza umana a basso costo. Che attraeva i mercanti di schiavi nell’area.
Le correnti del Golfo
«E adesso prendono il petrolio e il gas dal sottosuolo fuori dalle nostre case, ma noi che cosa ne ricaviamo? – esclama Adel, un altro afro-iraniano, seduto su uno sgabello – Io sono un pescatore come mio padre, navigo sulla sua stessa barca, ma con tutte quelle enormi navi da pesca commerciali devo allontanarmi il più possibile», racconta. Ogni volta rischia di rimanere intrappolato nelle correnti e nelle tempeste del Golfo Persico o, ancor peggio, di varcare un confine senza accorgersene.
Adel finisce il suo tè e nel buio torna a casa attraverso le labirintiche strade di Behbahani, salutando tutti i passanti. Tra loro c’è Homa, una donna afro-iraniana sulla sessantina. È “Zia Homa”, per la gente, che la ammira per la sua voce eccezionale. «Per una donna sola della mia età, il modo migliore di passare il tempo è andare a trovare le amiche». Che sono per lo più casalinghe afro-iraniane come lei.
Provetti musicisti
Oltre al laboratorio di Mohammad, il centro d’attrazione principale della piazza è un campo di calcio. Nel corso di una mite serata di febbraio un gruppo di bambini, alcuni facenti parte della band di Ali, si allenano con il loro coach, pure di origini africane. Tre anziani siedono su una panchina vicino; la loro conversazione si ode a malapena, nel frastuono dei bambini: «Quest’uomo vicino a me, così posato, è conosciuto come Dammam Master, “maestro del dammam”» (tipico strumento a percussione originario del sud dell’Iran, utilizzato anche in Africa). E intanto uno degli anziani indica l’amico al suo fianco, Seyed Abdi, un afro-iraniano dalla lunga barba tagliata meticolosamente. L’abilità di Seyed con lo strumento ha suscitato l’interesse di musicologi, giornalisti e documentaristi. Eppure nella sua casa non c’è un singolo dammam. Gli strumenti musicali sono considerati proprietà della comunità, a Behbahani, e custoditi nelle moschee.
Retaggi culturali
L’edificio sacro è un ambiente rilassato in cui i passanti possono ripararsi dai pomeriggi torridi dell’estate, che dura nove mesi nella regione, bere tè, chiacchierare o semplicemente schiacciare un pisolino. Le donne, che nelle moschee iraniane sono spesso emarginate, qui si sentono più a loro agio: conservano in autonomia i loro rituali, molti dei quali comprendono canti di varia estrazione, e il culto è spesso guidato da donne di origine africana. La gente del posto, come in tutte le altre città ricche di risorse naturali, affonda nella povertà, dal momento che la ricchezza della regione viene esportata verso luoghi dei quali essa non conosce, spesso, neppure il nome.
Ali crede che, anche se gran parte della storia pare sepolta per sempre, l’eredità africana è onnipresente: «Gli africani hanno portato la loro musica e i loro rituali come souvenir ai loro inospitali padroni stranieri». A poche centinaia di metri da Ali, un afro-iraniano di 67 anni ha un’altra opinione. Cerca di vivere e far mangiare la famiglia vendendo spuntini, sigarette e bevande dal suo carretto arrugginito. Mentre lo trascina verso casa alle 10 di sera, dopo una giornata di lavoro, ricorda: «Chi se ne importa quale fosse il nostro padre, se lo schiavo o il padrone. Lottiamo tutti per guadagnarci da vivere, adesso».
(Monir Ghaedi – foto di Giacomo Sini)