Sara Lemlem, giovane italiana figlia di genitori etiopi, ci racconta del suo viaggio all’incontro con le proprie radici. Da Milano all’Etiopia: un itinerario che la porterà a incontrare per la prima volta i luoghi di origine della propria famiglia.
È molto tardi quando scendiamo dall’aereo. Sono le 4 di notte, siamo stanchissimi visto che dalle 10 del mattino siamo in viaggio e dopo uno scalo interminabile al Cairo finalmente siamo arrivati. Dopo aver ritirato tutte le valigie, ci avviamo verso il fratello di mio padre, che ci sta aspettando.
Lo incontro per la prima volta. È molto gentile ed è già pronto con un mini-van per caricare tutte le valigie che ci siamo trascinati da Milano. Il primo incontro con la città è interessante: la zona di Bole (vicino all’aeroporto) è costituita da palazzi alti, per lo più negozi. Ma è buio e in certe via manca l’illuminazione, quindi mi accontento così e dopo essere entrati in albergo, mi addormento.
I giorni seguenti, addentrandomi nella quotidianità del posto, sono rimasta colpita dalla grande quantità di bambini che giocano ai cigli delle strade. Quello che per noi è pericoloso per loro è la normalità: giocano con tutto ciò che trovano per la strada, bastoni, lamiere, sassi. Sono così gioiosi, per loro tutto è un gioco. Il resto della popolazione è molto eterogenea, per ceto sociale, educazione e provenienza. In generale, tassisti, negozianti e camerieri sono molto gentili, difficile che non ti porgano un sorriso. Si scopre una grande umiltà e dignità qui.
A livello urbanistico, la città è un mix di costruzioni moderne, baraccopoli e cantieri. Alla prima occhiata, sembra tutto molto caotico ma, guardando bene, si vede che tutto è in estrema evoluzione: ad ogni angolo ci sono palazzi in costruzione, scavi, gru. Il boom economico è ben evidente. L’ultima volta che ho visto questa frenesia architettonica è stato a Berlino, solo che qui spesso ci si arrangia e moltissime impalcature sono in legno. In Africa l’arte dell’arrangiarsi è un must e tutti sembrano fermamente intenzionati a far crescere finalmente il paese.
Quello che ho trovato parecchio difficile in questi primi giorni sono stati gli spostamenti, i modi per spostarsi qui sono essenzialmente i taxi e i minibus. Esistono anche gli autobus veri e propri, ma hanno la fama di essere molto lenti. I mini-bus, sono un po’ complicati da utilizzare, ne passano tantissimi e un ragazzino urla dal finestrino la destinazione, se è quella giusta si viene caricati, si pagano pochi birr (la moneta locale), ma l’inconveniente è che non rispettano la capienza effettiva dei posti a sedere. Mi è capitato un paio di volte che mi chiedessero di sedermi in braccio al vicino – per fortuna mia mamma – per far posto.
Sicuramente questa non è la stagione migliore per visitare Addis Abeba, siamo in piena stagione delle piogge, e piove tutti i giorni. Le scarpe di tela non sono molto pratiche, anche se davvero tante persone indossano semplici sandali. Le macchine sono quasi tutte vecchie in stile anni ’80, ma non è raro vedere fuori strada moderni. Addis è proprio un mix di ricchezza e povertà, fra l’altro neanche separati: davanti agli alberghi a 4 stelle si vedono banchetti improvvisati dove si vendono ortaggi e frutta.