Rewind and Play è un documentario dell’autore franco-senegalese Alain Gomis. L’autore è probabilmente già noto agli spettatori del Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America latina di Milano, occasione in cui il regista ha presentato più volte i suoi film. L’opera selezionata alla recente Berlinale è un originale e inedito ritratto del maestro del jazz americano, Thelonious Monk
di Annamaria Gallone
La volta scorsa vi ho parlato di due film selezionati alla recente Berlinale 22, oggi vi parlo di un autore più conosciuto, Alain Gomis, franco-senegalese, che ha presentato tutti suoi film al Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America latina di Milano (FESCAAAL) e alla Berlinale 22, nella sezione FORUM, è stato selezionato con un’opera assolutamente originale: REWIND AND PLAY.
Alain si è immerso totalmente nelle immagini di repertorio della visita di Thelonious Monk a Parigi nel 1969, trasformandole in un inaspettato ritratto del talentuoso maestro del jazz americano. Il regista ha dichiarato: “il filmato off-record di questo concerto mostra molto di più che solo un genio”.
Spesso rilasciare un’intervista si rivela un compito ingrato per un artista e decisamente lo è stato per questo grande artista che si è trovato ad affrontare le telecamere il 15 dicembre 1969 su un piccolo palco in uno studio francese. Ed è proprio con il materiale di repertorio inedito che Gomis ci svela il funzionamento di un programma televisivo da una prospettiva completamente nuova.
Monk è intervistato dal conduttore del programma “Jazz Portrait”, Henri Renaud, e lo fissa con disagio a causa della sua scarsa conoscenza del francese. Cerca di collaborare, ma poco dopo i primi piani rivelano il suo viso completamente coperto di sudore. Continua per lunghe ore a suonare sotto le luci calde e accecanti dello studio senza che nessun truccatore intervenga a ritoccare il suo aspetto.
Già all’inizio delle sequenze scelte dal regista si capisce che l’artista è un uomo di poche parole. Vediamo infatti la moglie Nellie, che sempre lo accompagna, chiacchierare allegra nell’auto che è venuta a riceverli all’aeroporto, mentre lui fuma tranquillamente sullo sfondo. Poi, durante una sosta in un bar, lo vediamo accarezzare con simpatia un cagnolino e già da queste prime sequenze risulta evidente che è un uomo di poche parole.
Resta tale anche durante l’intervista nella quale Renaud, che non è un giornalista professionista, cerca ad ogni costo di creare un personaggio, senza tentare di entrare in sintonia con l’artista, ma ritraendolo in modo piuttosto banale senza ascoltare le sue esperienze, lasciandosi andare piuttosto in lunghi monologhi.
Monk, rimane sempre taciturno e fissa un punto lontano mentre l’intervista viene praticamente condotta senza di lui. Il regista evidenzia con grande intensità la situazione assurda, ma anche la bellezza della musica, il linguaggio in cui Monk si esprime appieno. I produttori e Renaud, gli chiedono ripetutamente di suonare qualcos’altro, un “brano di tipo medio”, ma Monk resiste pazientemente, abituato suo malgrado allo sfruttamento mediatico che sarà una costante della sua esistenza.
La grande professionalità e sensibilità di Alain Gomis emerge in questo originale, prezioso documentario. Penso veramente di grande interesse conoscere il percorso artistico di questo regista e vi do appuntamento al nostro prossimo incontro per parlarvene diffusamente.