Romanzo minerale: i forzati dei metalli preziosi in Africa

di claudia

di Tommaso Meo

Tanta fatica, rischi enormi, pochi soldi: la dura vita dei minatori informali che rovistano nel sottosuolo dell’Africa. Almeno dieci milioni di persone – donne e bambini compresi – lavorano ogni giorno in miniere artigianali per estrarre le ricchezze dell’Africa. Scavano a mani nude, smuovono tonnellate di pietre e terra, spariscono dentro tunnel o voragini impressionanti… da cui rischiano di non riemergere. Per una manciata di monete

Scavano e spalano, a volte con le mani, per lo più al buio, dentro tunnel sottoterra stretti e senz’aria, oppure immersi nelle grandi fosse aperte in superficie. Quando scendono, imbragati se va bene, si fanno luce solo con una lampadina attaccata alla testa. Giù per metri e metri, e poi di nuovo su, mentre intorno a pozzi, buche e cunicoli c’è chi aspetta speranzoso. Sono spesso donne, con acqua, setacci e a volte pericolosi agenti chimici, da usare per separare pietre, terra e fango, nell’illusione che tra il materiale portato faticosamente alla luce ci sia qualcosa di prezioso da vendere. È la dura vita di chi in Africa tenta la fortuna nell’estrazione mineraria di piccola scala, chiamata anche informale o artigianale, e che per molti governi è illegale, ma prospera a causa di vuoti legislativi, controlli impossibili e connivenze. I minatori indipendenti, non al soldo di grandi compagnie estrattrici locali o estere, e quasi sempre senza licenze, formano piccoli gruppi, disposti a spostarsi ovunque si trovino minerali in nome della propria sussistenza e delle proprie famiglie, con molti rischi, qualche guadagno e nessuna tutela.

Non tutto è oro…

Come mostrano le foto evocative di queste pagine, tale genere di attività è diffuso in diversi Stati del continente africano, soprattutto a sud del Sahara, dal Ghana al Congo, dalla Guinea al Camerun, fino allo Zimbabwe e al Sudafrica, dove quelli che rovistano sottoterra sono chiamati zuma zuma, in lingua zulu: “Quelli che provano e riprovano”.

Il fenomeno non riguarda solo l’oro, ma anche diamanti e pietre preziose, terre rare e minerali strategici come cobalto e litio, usati nella produzione di dispositivi elettronici tra cui cellulari e laptop. Tuttavia, l’estrazione aurifera informale è quella più diffusa, a causa della grande ricchezza del sottosuolo africano: un fiume d’oro, come lo chiamano molti, che scorre nelle viscere del continente da est a ovest. Tanto che, secondo i dati di uno studio pubblicato nel 2022 da Novafrica, centro di ricerca della facoltà di economia dell’Università di Lisbona, il 18% della superficie africana sarebbe adatto all’estrazione artigianale dell’oro. In questo settore i minatori improvvisati sono a loro modo organizzati e seguono i mercati internazionali dell’oro per individuare il momento più propizio per mettersi a cercare, attrezzi in spalla. Quello che viene estratto viene poi venduto a intermediari nelle città e spesso finisce negli Emirati Arabi Uniti, a Dubai, centro per eccellenza per questo tipo di economia.

Foto di LUIS TATO / AFP

Numeri paurosi

È complicato avere dati e precisi e aggiornati su questo fenomeno, a causa della sua non regolamentazione. Delle sue dimensioni ci si può fare un’idea. Diversi studi calcolano che l’estrazione mineraria artigianale e su piccola scala contribuisce al 20% dell’oro estratto nel mondo e tra il 15 e il 20% dei minerali e metalli a livello globale. L’Africa partecipa in modo significativo a queste statistiche. Un report del 2019 della Banca mondiale in collaborazione con l’organizzazione per lo sviluppo Pact stima che più di 40 milioni di persone nel mondo lavorino nell’attività mineraria artigianale e di piccola scala. Di queste, 10 milioni sarebbero in Africa. In particolare, 2 milioni nella Repubblica Democratica del Congo e tra 1 e 1,5 ciascuno in Sudan, Ghana e Tanzania. Altre centinaia di migliaia sono impiegate nell’estrazione anche nella regione del Sahel.

Sarebbero tuttavia ancora più numerosi quelli che vivono dell’indotto di questa economia. A livello mondiale si stima inoltre che lavori in questo settore fino a un 30% di donne, ma l’Organizzazione internazionale del lavoro indica che è una percentuale che può raggiungere il 60% in alcune aree minerarie africane. Nel continente la pratica dell’estrazione mineraria informale è un’importante, talvolta vitale, fonte di reddito soprattutto per chi abita in contesti agricoli, ma a un prezzo ambientale e umano non trascurabile. L’estrazione artigianale, ancora secondo la ricerca di Novafrica, aumenta durante i periodi di maltempo, poiché questo preclude le attività agricole, risultando però un fattore significativo di deforestazione, oltre che di degrado del territorio e perdita di biodiversità. Nemmeno è raro che si scavi in aree protette. Inoltre, le comunità non hanno le infrastrutture per gestire i rifiuti, con gravi conseguenze igieniche e sanitarie.

Avvelenati dal mercurio

Anche certi metodi estrattivi usati dai minatori informali sono stati spesso criticati per il loro impatto sull’ambiente e sulla salute. I cercatori d’oro artigianali e su piccola scala spesso utilizzano il mercurio, sostanza chimica altamente tossica, per separare l’oro dai minerali. Esistono delle alternative, ma per molti le speranze di guadagno superano i rischi per la salute e l’ambiente. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’esposizione al mercurio può causare disabilità permanente, insufficienza renale e disturbi della parola, della vista e cognitivi nei minatori o in coloro che dipendono dalla vegetazione, dall’acqua e dalla vita marina inquinate dagli alti livelli di questo elemento. Le donne, le donne incinte e i bambini sono particolarmente a rischio.

Già dal 2017 l’Oms vieta l’utilizzo del mercurio per qualsiasi tipo di prodotto e lavorazione; quello stesso anno è entrata in vigore la Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato globale firmato o ratificato, a oggi, da 45 nazioni africane. Per quanto riguarda l’estrazione mineraria, la convenzione obbliga i governi a promuovere metodi di lavorazione dell’oro privi di mercurio, ad adottare misure speciali per proteggere dall’esposizione le popolazioni vulnerabili e fermare pratiche particolarmente dannose nella lavorazione dell’oro.

Stragi senza fine

Oltre al problema dell’inquinamento, altri pericoli sono all’ordine del giorno nei siti minerari informali in tutta l’Africa, come testimoniano le notizie di crolli, inondazioni ed esplosioni mortali che arrivano a ciclo continuo. Tra gli ultimi, più eclatanti casi, nel maggio 2023 trentuno minatori del Lesotho sono rimasti uccisi dal metano in una miniera d’oro sudafricana dismessa, mentre in Zimbabwe, a ottobre, è crollato un giacimento in disuso nel distretto di Chegutu, provocando la morte di almeno dieci lavoratori informali.

Ci sono poi spesso anche serie implicazioni sociali nelle comunità di minatori artigianali. Non è raro che vi siano diffuse la criminalità, la prostituzione, le malattie sessualmente trasmissibili e le violenze, perché dove ci sono minerali circolano anche denaro e interessi. Spesso, le miniere sono in mano ad attori non statali in cambio del loro sostegno alle élite politiche di turno. Questi gruppi affittano a loro volta i siti e i terreni a cooperative di minatori, oppure impiegano direttamente i lavoratori per loro conto.

Foto: Panos

Scandalo congolese

Un capitolo a parte merita la Repubblica Democratica del Congo, un Paese enorme, otto volte l’Italia, nel cuore del continente: uno “scandalo geologico” oggetto delle brame internazionali, dalle cui ricchezze minerarie dipende gran parte dell’elettronica mondiale. Nelle province orientali del Nord e Sud Kivu si concentrano enormi giacimenti di metalli strategici: stagno, tantalio, tungsteno, coltan, cassiterite… indispensabili per la fabbricazione dei nostri smartphone e di tutta la tecnologia a nostro servizio. È un territorio vastissimo, avvolto dalla foresta equatoriale, con confini porosi e una debole presenza dello Stato, da oltre trent’anni flagellato da conflitti e di instabilità. L’estrazione dei minerali è controllata in gran parte da milizie armate, che si finanziano sfruttando nelle miniere il lavoro di migliaia di civili, compresi donne e bambini.

Attorno ai siti estrattivi gravita una complessa rete di gruppi militari e paramilitari, connessa a intermediari e committenti internazionali, che si contende enormi ricchezze: oltre ai minerali già citati, l’oro e i diamantisenza dimenticare l’uranio, il rame e il cobalto nel Katanga. In teoria ci sarebbe un organismo incaricato di controllare che le attività minerarie (quantomeno quelle legate all’estrazione di stagno, tantalio e tungsteno) non finanzino gruppi armati né utilizzino lavoro minorile. Ma, secondo un recente rapporto della ong britannica Global Witness, che nel 2021 ha condotto un’inchiesta nelle province orientali congolesi, «il 90% dei minerali estratti non proviene da miniere trasparenti e responsabili», certificando di fatto l’inefficacia dei controlli, anche a causa della diffusa corruzione.

Global Witness sottolinea che siamo di fronte a un fenomeno di contrabbando e di riciclaggio di metalli talmente ampio che non è possibile che le autorità locali e le multinazionali che operano sul terreno ne siano all’oscuro. Nel 2019, colossi tecnologici e informatici come Tesla, Microsoft, Google e Dell sono stati citati in giudizio negli Stati Uniti e accusati di trarre profitto dal lavoro minorile forzato nelle miniere di cobalto della Rd Congo. Il commercio illegale di minerali è una fonte vitale di reddito per i “signori della guerra” che alimentano l’instabilità nella regione. Il Congo produce il 60% del coltan, componente fondamentale nella produzione elettronica perché permette di ottimizzare il consumo di energia nei chip di ultima generazione: la sua estrazione frutta 150 dollari al chilo, ma può arrivare a picchi di 600.

Dietro a questi business criminali si cela un prezzo umano spaventoso. Le miniere congolesi sono voragini fangose e labirinti di tunnel scavati a mano in cui gli incidenti mortali sono frequentissimi. Ragazzini e bambini sono molto richiesti per questi lavori perché più agili, più piccoli ed elastici: si muovono meglio negli spazi angusti. Molti di loro lavorano anche più di 14 ore al giorno. Gli uomini estraggono le pietre con le vanghe, le donne e i bambini le lavano a mano nell’acqua e le trasporteranno al mediatore più vicino. A volte cammineranno anche due giorni nella foresta con trenta chili sulle spalle. Questi minatori guadagnano 3-4 dollari al giorno. Donne e trasportatori, 2. I bambini anche meno. Briciole. I minerali vengono poi spediti in Cina o Malaysia, dove i due metalli che costituiscono il coltan (columbite e tantalite) verranno separati per essere venduti all’industria high-tech.


©Marco Gualazzini/Getty Images

Gocce nel mare

Secondo l’organizzazione non governativa Pact, molto attiva sul tema, se è vero che «l’estrazione artigianale deve affrontare sfide legate all’ambiente, ai diritti umani, alla salute e alla sicurezza e altro ancora, i minatori su piccola scala sono di fatto una forza vitale nelle loro comunità e nell’economia globale». Per l’ong, invece che criminalizzato, il settore «con un sostegno può essere formalizzato e migliorato a beneficio di tutti». Espertie organizzazioni concordano che una regolamentazione di tali attività contribuirebbe notevolmente a promuovere la trasparenza nelle catene di approvvigionamento dei minerali. Garantirebbe inoltre migliori standard di sicurezza, salute e ambiente, nonché produttività, il che sarebbe positivo sia per i minatori sia per lo Stato.

C’è chi, come la stessa Pact, sta già lavorando per cambiare il volto a questo settore. La canadese Artisanal Gold Council, per esempio, lavora in Burkina Faso e Senegal con i minatori informali dando loro una formazione sulle tecniche estrattive che non contemplano il mercurio, e sostenendo l’acquisto di nuovi e più moderni macchinari. Una goccia nel mare.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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