Ruanda 21 anni dopo. Per non dimenticare

di Enrico Casale

Ci sono date che non bisognerebbe mai dimenticare. Andrebbero segnate sul calendario con un cerchio rosso e dovrebbero suscitare riflessioni. Una di queste date è il 6 aprile.

 

RuandaÈ all’alba del 6 aprile 1994 che in Ruanda scatta il genocidio della popolazione tutsi a opera degli hutu. Una discesa agli inferi, fatta di stragi collettive e di omicidi mirati che in tre mesi, tanto durerà la follia, farà più di 800mila vittime (tra tutsi e hutu moderati).

Affinché tragedie simili non si ripetano è importante ricordare gli eventi, ma soprattutto capire perché si siano verificati. Non abbiamo spazio per una cronologia, ma possiamo mettere in evidenza alcune delle responsabilità che hanno portato al genocidio.

Sono responsabilità antiche che hanno le radici nel periodo coloniale. Sono prima i tedeschi e poi i belgi a suddividere le popolazioni ruandese in etnie: i tutsi (prevalentemente pastori), gli hutu (prevalentemente coltivatori) e i twa (pigmei). Per governare i colonizzatori si appoggiano all’etnia tutsi, scatenando il risentimento degli hutu. Da qui un susseguirsi di scontri che iniziano alla fine del periodo coloniale e proseguono (sanguinosi) anche dopo.

Sullo sfondo c’è anche l’intreccio di due fenomeni che interessano l’Africa nel secondo dopoguerra: in primo luogo, la Guerra fredda, e quindi la necessità delle potenze occidentali di evitare la penetrazione in Africa del blocco sovietico; in secondo luogo, la volontà degli ex colonizzatori di mantenere intatta la propria area di influenza per poter continuare a sfruttare le immense risorse africane. L’influenza francofona (Belgio e Francia) è quindi funzionale alla lotta contro l’espansionismo di Mosca. Ma dopo il crollo del Muro di Berlino, le prospettive cambiano. L’Africa centrale, ricchissima di materie prime, attrae sempre più l’attenzione degli anglofoni (Usa in particolare). È in questa ottica che si spiega il sostegno pieno di Washington al Rwandan Patriotic Front a prevalenza tutsi che, dopo il genocidio, prenderà il potere, che gestisce tuttora. Ed è sempre in questa prospettiva che si legge la protezione accordata dai francesi agli hutu (compresi i responsabili del genocidio) in fuga di fronte all’avanzata dei tutsi. Un confronto che si sposterà anche nell’ex Zaire dove gli Usa sosterranno la rivolta guidata da Laurent Desirée Kabila contro Mobutu Sese Seko.

Da più parti, è stato poi rilevato l’inattivismo dell’Onu durante il periodo del genocidio. In queste accuse c’è del vero. Ma non si possono dimenticare figure come quella del generale canadese Romeo Dallaire che, quattro mesi prima dello scatenarsi delle violenze, avvertì il Palazzo di Vetro della preparazione del genocidio, ma non fu creduto. Lo stesso Dallaire poi si adoperò per salvare più vite possibili durante le stragi.

C’è la possibilità che violenze simili possano ripetere? Nessuno ha la sfera di cristallo. Oggi il Ruanda è governato (qualcuno sostiene in modo dittatoriale) da un tutsi, Paul Kagame. In questi anni, però, si è registrata una forte crescita economica abbinata a una politica che cerca, almeno ufficialmente, di stemperare le tensioni tra i diversi gruppi (anche se nel vicino Congo lo stesso Ruanda sta portando avanti politiche di ingerenza facendo leva proprio sulle differenze etniche). La situazione è calma in apparenza. Risentimenti covano però sempre sotto la cenere. La speranza è che la comunità internazionale abbia fatto tesoro dell’esperienza passata e sappia intervenire qualora scoppino nuove violenze.

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