Sul terreno di gioco di una scuola di Kigali in cui nel 1994 furono trucidate duemila persone, i giovani (di entrambe le etnie) sono oggi tornati a divertirsi con mazza, palla e guantoni.
«Non ricordo nulla del genocidio, all’epoca avevo due anni. So solo che una mattina di aprile mio padre fu ammazzato come si fa con le bestie nei macelli. La stessa fine toccò al mio fratello maggiore. Io mi salvai assieme a un fratello un poco più grande, grazie a nostra madre che riuscì a scappare di casa poco prima dell’arrivo dei paramilitari che andavano a snidare i Tutsi in ogni casa. Durante tutto quel periodo ci nascondemmo nelle campagne, con l’aiuto di amici. Quando tutto fu finito, tornammo a casa, ma non trovammo la pace: tra le macerie era rimasta una bomba. Mio fratello la toccò e saltò in aria».
Byiringiro Audifax parla con un filo di voce, senza tradire l’emozione. Ha 26 anni e lavora in una società di software a Kigali. Tre volte la settimana, chiuso l’ufficio, si toglie giacca e cravatta e indossa la divisa del suo sport preferito: il cricket.
Una strage efferata
Viene ad allenarsi con un gruppo di amici al campo di Kicukiro, inaugurato pochi mesi fa, un luogo simbolo di riconciliazione in questo Paese che la primavera prossima commemorerà i 25 anni da uno dei peggiori stermini della storia umana. Tra queste colline, in meno di cento giorni, nel 1994 furono trucidate un milione di persone, in gran parte Tutsi (ma anche molti Hutu che si rifiutarono di uccidere degli innocenti). E, dove oggi si trova il campo ovale in cui ci allena, un quarto di secolo fa si consumò uno dei massacri più efferati: quello passato alla storia come “strage dell’École Technique Officielle Don Bosco”.
È Charles Haba, fondatore della Rwandan Cricket Association, a rievocare quei momenti: «Qui aveva sede una scuola superiore, gestita dai salesiani. Come le violenze scoppiarono a Kigali, qui vennero a rifugiarsi cinquemila Tutsi, soprattutto giovani». La scuola venne presto circondata dagli Interahamwe, milizie armate di asce e machete, ansiose di annientare gli inyenzi – gli “scarafaggi”. Benché assediati, i fuggiaschi si ritenevano al sicuro, in quanto gli edifici scolastici, delimitati da un’alta recinzione, erano presidiati dai caschi blu. Ma dal quartier generale delle Nazioni Unite arrivò l’ordine di smobilitare il contingente (per impiegarlo nell’evacuazione degli occidentali). I soldati dell’Onu se ne andarono la mattina dell’11 aprile, condannando a un atroce destino quella moltitudine di civili.
Il campo ritrovato
Gli squadroni della morte irruppero e si accanirono con ferocia inaudita sui Tutsi. Almeno duemila furono finiti sul posto all’arma bianca, altrettanti furono catturati, portati in vari luoghi di esecuzione di massa e falcidiati con le mitragliatrici. Lo sterminio – una delle pagine più dolorose del genocidio – ha ispirato il regista Michael Caton-Jones per la realizzazione nel 2005 di Shooting Dogs (negli Usa è uscito con il titolo Beyond The Gates). «Nella scuola in cui avvenne la carneficina etnia – ricorda Charles Haba – c’era un campo di gioco che all’ora della ricreazione si riempiva di centinaia di giovani festosi. Abbiamo voluto rivitalizzare questo posto. Non per occultare quanto accaduto, al contrario: per ricordare e onorare le vittime trasformando un luogo di morte in uno spazio di vita e di speranza».
Oggi, sui verdi prati di Kicukiro sono tornati a correre e divertirsi tanti giovani, hutu e tutsi assieme. Merito di uno sport di squadra praticato con mazza, palla e guantoni, fino a pochi anni fa pressoché sconosciuto da queste parti.
Boom di atleti
Il cricket è nato in Inghilterra ed è praticato principalmente nei Paesi del Commonwealth. In Ruanda è approdato dopo il genocidio, in seguito al ritorno in patria dei Tutsi che avevano trascorso decenni in esilio in Paesi anglofoni come l’Uganda, il Kenya e la Tanzania. Charles Haba è stato l’ispiratore della Rwanda Cricket Stadium Foundation (Rcsf), registrata nel 2011 in Ruanda e nel Regno Unito, che punta a promuovere la diffusione di questo sport nel Paese delle mille colline. «Quando siamo partiti, quindici anni, fa potevamo contare su una ventina di appassionati: oggi, oltre diecimila ruandesi di ogni età praticano la nostra disciplina. E ogni mese schiere di giovani si uniscono alle decine di squadre maschili e femminili sorte presso scuole e università».
Eric Dusingizimana, ingegnere civile, è il capitano della neonata nazionale del Ruanda. «Per me è un onore rappresentare il mio Paese a livello internazionale. Sento la responsabilità di mostrare al mondo il volto nuovo e sorridente del mio popolo, per troppo tempo associato al dramma del genocidio. Non vedo l’ora di giocare davanti al grande pubblico per mostrare il nostro valore, i nostri valori».
Donne protagoniste
Lo stadio c’è già: è stato realizzato a tempo di record con donazioni private (pervenute alla Rcsf da ogni parte del mondo) e grazie al lavoro di decine di volontari che hanno prestato le loro mani e il loro tempo. E pazienza se il guardiano del Rwanda Cricket Stadium deve litigare con le vacche dei dintorni, che talvolta fanno irruzione scambiando l’erba del campo sportivo per un pascolo.
L’inaugurazione della struttura polifunzionale (oltre al campo da gioco regolamentare ospita un ristorante, sale riunioni e un ambulatorio dove i giovani possono eseguire gratuitamente i test dell’Hiv), avvenuta un paio di anni fa alla presenza del presidente Paul Kagame, ha dato un deciso impulso alla diffusione del cricket. «Desideriamo che la nostra disciplina rappresenti un volano per promuovere la pace, la concordia e il riscatto sociale», fanno sapere i promotori della campagna Cricket Builds Hope, volta a coinvolgere nello sport i giovani più svantaggiati. «Anche noi donne siamo scese in campo», dice Cathia Uwamahoro, la più forte “battitrice” del Paese. «Abbiamo una lega femminile estremamente competitiva, composta da ben 6 squadre. Grazie al cricket siamo riuscite a conquistarci un ruolo da protagoniste, finora precluso in altri sport di squadra come il calcio. Guai a considerare il cricket solo un gioco. In Ruanda è una cosa seria e importante quanto il futuro che abbiamo davanti».
(Marco Trovato – foto di Rcsf)