L’ultima opera del regista Ulrich Seidl è uno scioccante documentario sugli europei che vanno in safari ad abbattere prede esotiche
La giraffa, ignara del pericolo, si avvicina ai due uomini appostati tra gli arbusti. Allunga il collo e scruta incuriosita quegli strani individui, grassi e sudaticci, che si dannano per mimetizzarsi. Lo sparo scuote l’aria rarefatta della savana. L’animale barcolla e cade rovinosamente. Si accascia, ma non muore subito. In un sussulto di vita cerca, invano, di rialzarsi. I cacciatori non lo finiscono per non rovinare il prezioso mantello. La telecamera zooma sulla bestia, indugia sul suo sguardo terrorizzato. L’agonia dura pochi minuti, che paiono un’eternità. Il corpo della giraffa ansima, rantola, infine appassisce, l’occhio si spegne. È forse la scena più forte e intensa (ma non la più raccapricciante) di Safari, l’ultimo film di Ulrich Seidl, austriaco, presentato alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia, uscito a settembre nelle sale italiane e in procinto di approdare in tivù (pare su Netflix).
Business fiorente
Safari è uno sconvolgente racconto delle attività venatorie dei ricchi turisti austriaci e tedeschi tra Namibia e Sudafrica. Uno sguardo impietoso, per certi versi cinico, che ricorda il controverso Africa addio (1966) di Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi. Seguendo le orme dei grossi animali selvatici, i cacciatori ripresi da Seidl li inseguono, si appostano, avvistano e sparano, posando infine per le immancabili foto coi loro trofei. Tutto è vero, autentico, documentato in presa diretta.
La caccia nelle riserve dell’Africa meridionale – regolamentata per tenere sotto controllo le popolazioni degli animali non a rischio estinzione – è un business florido. Ogni preda ha il suo prezzo: 1500 euro una zebra, 2000 un’antilope, 3500 una giraffa, 15.000 un bufalo di grande taglia, 18.000 un leone, e così via. Seidl racconta con stile rigoroso, senza sconti né censure, come funziona il business legale dell’abbattimento dei grandi mammiferi africani. Documenta le battute di caccia, registra voci e riflessioni dei facoltosi turisti, armati di fucile e vestiti in perfetto stile coloniale.
La libido di uccidere
«Volevo mostrare anzitutto cosa motiva tante persone a cacciare e come questa attività possa diventare un’ossessione», ha spiegato il regista, uno dei più noti e discussi documentaristi del momento. «Ma durante le riprese ho capito che avrei realizzato un film sul concetto di uccidere: uccidere per il piacere di farlo senza essere mai davvero in pericolo, uccidere come una sorta di liberazione emotiva. Conoscevo cacciatori che uccidono, ma non coppie e famiglie che si baciano e congratulano tra loro dopo l’uccisione. L’atto di uccidere sembra per loro un atto libidico».
Allo spettatore non viene risparmiato nulla: arti di zebre amputati col machete, scuoiamento di bufali e gnu, soppressione e macellazione di una coppia di antilopi. Ma, ancor più delle scene truci e dei dettagli macabri, colpisce e annichilisce ciò che traspare dalle parole dei cacciatori: l’ossessione del colpo perfetto, il cinismo con cui scelgono la preda, l’efferata spietatezza con cui si accaniscono sugli animali inermi. E il razzismo ostentato. «Non è mica colpa loro se sono negri. Ma nemmeno nostra», sorride sorniona una coppia di cinquantenni.
Se siete impressionabili, lasciate perdere questo documentario. Ma non ignoratene il tema, tanto sconvolgente quanto reale.
(Valéry Lagarde)
4 commentI
Fanno schifo
CESSI AMBULANTI, VI AUGURO VIVAMENTE LE PEGGIORI PATOLOGIE ONCOLOGICHE SENZA POSSIBILITÀ DI CURA E DI EUTANASIA
SPARATEVI CON UN CALIBRO PER PACHIDERMI, MERDE AMBULANTI
Uno che uccide un animale per libido andrebbe con libido torturato