«In Africa siamo abituati ad essere poveri, precari, impotenti, vulnerabili. Possediamo dunque migliori anticorpi rispetto al male che ora serpeggia per il mondo cosiddetto evoluto. Il mondo occidentale in crisi avrà forse motivo di ricercare qui in Africa e tra la gente più povera del mondo il suo più efficace vaccino».
Da missionario lombardo di Mantova ad Abol, in Etiopia a circa 50 chilometri dal confine col Sud Sudan, il Covid-19 mi mette di fronte a uno strano paradosso: adesso sono io quello che sta bene e che rischia meno. Faccio la vita di tutti i giorni, posso progettare le prossime settimane, vivere relazioni umane da vicino. E vedere intorno a me tanti segni di speranza e di vita.
Mentre, sino a poche settimane fa, dall’Italia ero io quello visto in una situazione difficile, di prova, piena di problemi. Ora tutti meglio comprendiamo come, in qualsiasi momento, le situazioni della vita e della storia possano radicalmente mutare.
Nella capitale
A dire il vero il virus è arrivato anche in Etiopia, da due settimane, ossia da quando sono stati registrati due casi di stranieri atterrati ad Addis Abeba. Dopo circa dieci giorni, i casi sono diventati nove: di fatto si tratta delle persone che sono rimaste a diretto contatto con i primi contagiati. Almeno: così risulta ufficialmente.
Il governo ha immediatamente deciso di chiudere tutte le scuole per due settimane, come pure le manifestazioni pubbliche e gli uffici pubblici. Così in tutta l’Etiopia. Anch’io ho dovuto adeguarmi. Anche se mi sembra del tutto prematuro. Siamo a 850 chilometri da Addis Abeba. Perché chiudere con così largo anticipo scuole già poco normalmente frequentate dai bambini?
Vero è che non sono state chiuse, nel mentre, le comunicazioni aeree da Addis Abeba a Gambella, la nostra città più vicina. Dalla capitale continuano ad arrivare dunque merci e persone. Mi sembra un controsenso. Anche se capisco che non si possa fermare quel poco di economia che consente alla gente di vivere.
Per obbedienza ho dovuto chiudere anche l’oratorio. Sono rimaste aperte nella missione solo le pompe dell’acqua per l’approvvigionamento idrico indispensabile per le famiglie, ma a gruppi di non più di cinque persone per volta.
La comunità cristiana e le condizioni di vita
Durante la catechesi del sabato e durante la messa domenicale – che ho mantenuto visto che le autorità non ne hanno fatto esplicito divieto – ho cercato di spiegare cosa sia un virus e come si debba prestare molta attenzione per non contrarlo: lavandosi le mani, evitando di toccare persone e merci che arrivano da Addis Abeba, segnalando immediatamente sintomi.
Le norme di comportamento che sono arrivate sino a qui sono esattamente la traduzione di quelle italiane. Ma le condizioni di base per poterle realizzare sono evidentemente ben diverse.
Ovviamente speriamo che il virus non giunga sino a noi e che non attecchisca. Per certi versi sono fiducioso. Da un lato, è probabilmente più difficile che ciò avvenga, visto che qui viviamo stabilmente a 35-40 gradi di temperatura. Siamo ancora nella stagione secca. Sembra che il virus non gradisca queste temperature. Sembra inoltre che i farmaci antimalarici abbiano un successo del 75% contro il coronavirus. Noi di questi farmaci siamo pieni. Tutti ne facciamo uso continuamente visto che ci ammaliamo spesso di malaria. Anche, se per la verità, io non l’ho ancora contratta.
D’altro canto, chi sopravvive in Africa, da adulto, ha già attivato difese immunitarie molto più sviluppate di quelle degli europei: basta ben meno del coronavirus per morire in Africa da bambini! Infine, la popolazione qui è molto più giovane e questo è sicuramente un vantaggio. Naturalmente tutte queste sono condizioni incoraggianti. Non sono delle certezze di immunità.
Ad alcuni medici di Gambella delle organizzazioni umanitarie ho chiesto come stanno affrontando il possibile arrivo del coronavirus. La risposta è stata spiazzante: «Aggiungeremo questa malattia alle tante altre che già portano alla morte delle persone!». Qui non esistono mascherine, respiratori, ossigeno, tamponi… medici equipaggiati, ecc. Quindi dobbiamo solo sperare che il virus non arrivi, ovvero che non ce ne accorgiamo più di tanto. Vedremo nel prossimo mese.
Come ho scritto, io cerco di continuare la missione e di non lasciarmi condizionare. Scuola e oratorio della missione non funzionano. Quindi vado io a trovare le persone nei villaggi. Lavoro per preparare la semina. Cerco di far avvertire il tempo di quaresima alle mie piccole comunità sparse nella savana. Faccio tutto pur sapendo che un potenziale pericolo è alle porte.
Altri mondi
Il mondo si sta dunque rovesciando? Il mondo ricco (quello occidentale) sta diventando povero? Quale sarà la situazione economica alla fine di tutto questo? Un mondo pieno di sicurezze e di progetti sta diventando precario? Un mondo potente sta diventando impotente e vulnerabile?
L’Africa povera, precaria, impotente e vulnerabile verrà risparmiata perché di fatto è “un altro mondo”? Oppure, tra qualche giorno o settimana, verremo pure noi e più gravemente travolti?
Di una cosa sono abbastanza certo: in Africa siamo abituati ad essere poveri, precari, impotenti, vulnerabili. Possediamo dunque migliori anticorpi rispetto al male che ora serpeggia per il mondo cosiddetto evoluto. Il mondo occidentale in crisi avrà forse motivo di ricercare qui in Africa e tra la gente più povera del mondo il suo più efficace vaccino: un sistema economico diverso, un rapporto con la natura diverso, una cultura della comunità diversa; e, probabilmente, un diverso modo di “credere” in Dio!
Foto Unicef Ethiopia/Ayene
Sandro Barbieri per SettimanaNews
Don Sandro Barbieri è presbitero fidei donum della diocesi di Mantova nel vicariato apostolico di Gambella, nella punta occidentale dell’Etiopia. Vive tra le popolazioni anuak e nuer della missione cattolica di Abol.