Schiavitù in salsa olandese

di claudia

Avrebbe dovuto aprire lo scorso 12 febbraio l’attesissima mostra Slavery allestita dal Rijksmuseum Amsterdam (www.rijksmuseum.nl/en). A causa della pandemia l’inaugurazione è stata spostata e la riapertura è prevista per Giugno, se le condizioni lo permetteranno. Slavery era comunque già stata presentata alla stampa, iniziando subito a creare dibattito. Scopo dell’esposizione è aprire una riflessione su come i Paesi Bassi si siano avvantaggiati della tratta degli schiavi, atlantica e non solo. Gli olandesi, infatti, hanno avuto colonie in Indonesia, Sudafrica, Curaçao, Aruba, Nuova Guinea e, fino al 1863, hanno percorso il globo terraqueo spostando materie prime e persone.

I curatori hanno deciso di presentare i manufatti selezionati (ci sono anche celebri dipinti e opere di culto di arte contemporanea) attraverso il racconto della vita di dieci persone coinvolte a titolo diverso nella tratta: soggetti trafficati, registi, manovali e “obiettori”. Qual è stata la loro esistenza? Che atteggiamento hanno avuto nei confronti del sistema schiavitù? Hanno subìto gli eventi o potevano in qualche misura orientarli?
Come ha spiegato Valika Smeulders, responsabile del dipartimento di Storia del Rijksmuseum, «concentrandosi su dieci storie di persone vere, Slavery offre una panoramica di come i singoli abbiano affrontato una condizione di ingiustizia legalizzata» che all’epoca non veniva recepita come tale. Con queste narrazioni si esce dalla dimensione necessaria ma talvolta asettica dei dati per entrare in quella dell’esperienza, mediata però da documenti e prove in grado di tracciare un perimetro di obiettività.

Romuald Hazoum, La Bouche du Roi

La mostra è introdotta da una “esclusione di responsabilità”: «I curatori del museo sono perfettamente consapevoli del fatto che parte della sua collezione proviene da donatori che in epoca coloniale hanno beneficiato della tratta degli schiavi».

(Stefania Ragusa)

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