Nel corso dell’emergenza legata al Covid-19, il governo senegalese si è sì preoccupato di distribuire viveri alla popolazione – in un’ottica meramente assistenziale secondo vari osservatori – ma ha lasciato campo libero ai grandi pescherecci stranieri e alle multinazionali impegnate nella produzione della farina di pesce, e queste hanno contnuato a sfruttare selvaggiamente le acque territoriali. A lanciare l’accusa è Greenpeace Africa, che ha recentemente reso pubblico il suo rapporto Mal di mare: mentre l’Africa occidentale è bloccata dal COVID 19, le sue acque rimangono aperte al saccheggio. Secondo lo studio, basato sugli avvistamenti registrati in Senegal, Gambia e Mauritania da marzo a fine luglio, alcune di queste industrie si sarebbero avvantaggiate notevolmente proprio grazie alle misure di contenimento.
Sulla base dei dati del sistema di identificazione automatica (AIS) utilizzato per le navi di tutto il mondo, Greenpeace ha potuto rilevare che almeno otto pescherecci industriali hanno portato avanti indisturbati la propria attività, durante il periodo osservato. Avevano tutti il medesimo nome, Fu Yuan Yu, seguito da un diverso numero identificativo, ed hanno evidentemente pescato nella zona economica esclusiva (ZEE) senegalese, in assenza di verifiche sulla loro licenza. In altri casi, i natanti si sarebbero serviti di un trucco per nascondere la loro posizione e manipolare i dati. Più in dettaglio, le Fu Yuan Yu 9882, 99885, 9889 e 9890, pescavano in acque senegalesi mentre risultavano formalmente in Messico.
Gli stabilimenti che producono farine di pesce destinate all’esportazione e, in particolare, agli allevamenti animali in Asia e in Europa, hanno dal canto loro continuato la loro attività, sottraendo risorse alimentari alla popolazione locale. Per dare un’idea: la nave Key West, trasportatrice di olio di pesce, ha fatto tre viaggi tra il 1 marzo e il 1 giugno. La sua capacità di carico è di 3.933 m3. Se questa quantità viene riempita con olio di pesce, corrisponde a 70.000 tonnellate di pesce fresco, l’equivalente del consumo annuale di pesce per 2,5 milioni di persone in un paese come il Senegal.
«L’economia mondiale è in recessione e anche l’Africa Occidentale è investita dal problema. Allo stesso tempo, tuttavia, l’industria della farina di pesce e dell’olio continua a epsandersi utilizzando gli stock ittici locali per produrre cibo per animali domestici, maiali e pesci. I governi dell’Africa occidentale devono lavorare insieme per chiudere definitivamente queste fabbriche», afferma Aliou Ba, consigliere politico per la campagna sugli oceani portata avanti da Greenpeace Africa. «Il calo degli stock ittici in Africa occidentale dovrebbe essere gestito meglio e meglio assicurato, per nutrire soprattutto le popolazioni della regione, specialmente in questo periodo di imminente insicurezza alimentare e perdita di biodiversità».
Dello stesso avviso Mor Bengue, attivista di Papas (Plateforme des acteurs de la pêche artisanale du Sénégal), la sigla che riunisce i pescatori artigianali senegalesi. «Consentire alle fabbriche di farina di pesce il proseguio delle normali attività durante il contenimento è stato davvero un problema, che ha creato anche una concorrenza sleale tra gli stabilimenti e le donne che lavorano abitualmente nella trasformazione del pesce e che sono state colpite dalle misure di contenimento».
Secondo il Pam 43 milioni di persone in Africa occidentale si troveranno in una situazione di insicurezza alimentare o malnutrizione nei prossimi 6 mesi. 20 milioni di queste lo saranno a causa di conseguenze socio-economiche legate al Covid-19.
Greenpeace chiede la chiusura definitiva di tutte le fabbriche di farina di pesce e olio di pesce presenti in Africa occidentale, ad eccezione di quelle che utilizzano esclusivamente rifiuti della lavorazione del pesce non idoneo al consumo umano. L’organizzazione chiede inoltre la pubblicazione dell’elenco completo delle navi autorizzate a pescare in tutti i paesi della CSRP, ossia la Commission sous-regionale des péches (Capo Verde, Gambia, Guinea, Guinea Bissau, Mauritania, Senegal, Sierra Leone) e uno statuto ufficiale che tuteli il lavoro delle numerose donne trasformatrici.
(Stefania Ragusa)