Ma come è stato possibile demolire, nel cuore della notte, un edificio classificato come patrimonio storico nazionale, nicchia nel cuore della capitale, sotto copertura di lavori di ristrutturazione? Ma cosa c’è che non va nelle teste delle persone?”. Khaira Thiam, psicologa clinica e psicoterapeuta molto conosciuta a Dakar, nonché attivista impegnata nella difesa dei diritti delle donne, ha commentato con queste parole, dal suo profilo Facebook, la demolizione dello mercato di Sandaga, avvenuta la scorsa settimana, nella notte tra giovedì e venerdì.
Espressione dell’architettura cosiddetta sudanese-saheliana, costruito nel 1935, il mercato di Sandaga è stato considerato un simbolo e un punto riferimento della capitale. Lo scorso anno, nel mese di luglio, i commercianti che lavoravano all’interno della struttura ma soprattutto a ridosso e attorno, erano stati spostati altrove, proprio in vista di lavori di intervento e riqualificazione considerati non più rinviabili, vista la fatiscenza dell’edificio. Ma la demolizione tout court e improvvisa ha colto lo stesso tanti di sorpresa. Per esempio la sindaca di Dakar, Soham El Wardini, prima donna a ricoprire l’incarico. E il fatto che lei non sapesse o più probabilmente non volesse, la dice lunga sulle tensioni che hanno accompagnato la decisione e su quelle potranno delinearsi a breve.
El Wardini ha convocato ieri un consiglio comunale straordinario, per stigmatizzare l’accaduto e soprattutto denunciare come il fascicolo “mercato di Sandaga” le fosse stato sostanzialmente sfilato di mano con la complicità o l’insipienza dei piani alti. Suo rivale, in tutto questo, è Alioune Ndoye, sindaco del municipio di Dakar Plateau, il quartiere centrale in cui sorgeva il mercato e si trovano i principali edifici del potere. Ndoye è anche ministro della Pesca e una figura politicamente influente. Nella mattinata di lunedì, prima che il consiglio comunale straordinario fosse aperto, il ministro ha convocato una conferenza stampa: per dire che tutto era stato fatto secondo la legge e alla luce del sole anche se materialmente di notte e per dare assicurazioni sul futuro dell’ormai ridotto in macerie mercato di Sandaga.
Ndoye ha assicurato che un nuovo edificio sarebbe stato ricostruito ricopiando con fedeltà l’originale e che gli elementi innovativi (ascensori e parcheggi) sarebbero serviti a renderlo più sicuro e funzionale.
“Abbiamo un progetto di ricostruzione identico al mercato di Sandaga e nello stesso luogo, perché siamo consapevoli che esso è il biglietto da visita di Dakar, un portato della nostra storia, ma anche e soprattutto un’estrema necessità per gli abitanti della comune”, ha detto Ndoye.
“Il progetto di ricostruzione, presentato a maggio 2018, richiederà la riorganizzazione dell’intero quartiere del Plateau e di tutte le attività commerciali”, ha aggiunto.
“Apporteremo lievi modifiche relative alla sicurezza con l’aggiunta di infrastrutture come montacarichi, ascensori e parcheggi sotterranei che non c’erano nel vecchio edificio”.
Dal consiglio comunale straordinario sono emerse però un’altra versione, molte rimostranze e soprattutto l’annuncio di un imminente ricorso. Soham El Wardini ha avuto parole molto dure e ha definito la demolizione un “genocidio culturale”. Si è indignata, inoltre, per il modo in cui le decisioni relative al mercato di Sandaga sono state sottratte al comune di Dakar e affidate al municipio di quartiere di Dakar-Plateau. Ha criticato l’inazione della Direction de la Surveillance et du Contrôle de l’Occupation du Sol che, nonostante i documenti giustificativi forniti dalla città di Dakar, non ha impedito il proseguimento delle operazioni a Sandaga. Ha stigmatizzato la scarsa attenzione rivolta alla questione dal Capo dello Stato, Macky Sall. In questa devoluzione ci sono state a suo avviso molte irregolarità e incongruenze amministrative. Talmente numerose e grosse da giustificare la scelta di adire a vie legali.
Dakar contro Dakar, insomma. Sarebbe riduttivo tuttavia immaginare che l’oggetto del contendere sia “solo” il celebre mercato, pur con tutto il suo portato di interessi economici. A scontrarsi sono proprio visioni differenti del territorio e del suo sviluppo. Il Senegal sembra oggi affetto da un’ipertrofia edilizia che sta facendo scempio del paesaggio urbano. Si costruisce ovunque. Si butta a terra e si erigono palazzi di 5, 6, 7 piani. Alveari da mettere in affitto a prezzi che spesso superano quelli delle grandi città europee. Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda delle cosiddette maisons bulles costruite negli anni ’50 da Wallace Neff, architetto americano visionario, che voleva conciliare le forme tradizionali con la modernità. Queste strutture, considerate piccole perle architettoniche e ancora visibili nella capitale, nella zona di Ouakam, sono state lasciate all’incuria e sacrificate alla frenesia palazzinara. Chi ci abita spesso non conosce la loro storia. Lo stesso dicasi per le tipiche case basse, con il cortile al centro e le stanze sviluppate in successione perimetrale, pensate per vivere all’aperto e in modo comunitario.
“Modernità significa fare tabula rasa della nostra storia e dei suoi luoghi?”, si domanda ancora Khaira Thiam dalla sua pagina FaceBook. Ma in realtà la questione potrebbe essere ancora più complessa. Le architetture storiche buttate a terra per dare spazio a altro sono recepite come storiche anche dal senegalese medio? E di quale storia parlano?
“Il mercato di Sandaga esisteva già prima che il colonizzatore decidesse di ri-costruirlo in modo moderno”, si legge in un uno dei tanti commenti al post di Khaira Thiam. L’architettura in stile sudanese sheliano, forse irrimediabilmente perduta o forse no, “è stata realizzata da un architetto francese secondo la sua concezione, ma non parla al senegalese medio. I senegalesi che a suo tempo avevano partecipato alla costruzione lavoravano al servizio di un progetto coloniale. Ho dei dubbi sul fatto che avessero un forte legame affettivo con la struttura”, scrive Serge Ndao, l’autore del commento. “Quando guardiamo l’elenco dei beni classificati, si tratta in massima parte di edifici coloniali (anche molto belli) e non di molti edifici progettati o progettati da senegalesi. Tutto ciò fa sì che la maggioranza dei senegalesi non abbia legami affettivi con il patrimonio nazionale classificato”. Il commento, sia chiaro, non difende la tabula rasa e neanche dà corda all’idea che buttare a terra edifici storici promettendo di rifarli uguali sia un accettabile compromesso. Evidenzia però una prospettiva antropologica che non può essere elusa. La cementificazione di Dakar, la demolizione degli edifici antichi, che tanto sconcerta gli osservatori occidentali e la sindaca e una piccola parte della cittadinanza, non sortisce lo stesso effetto sulla maggior parte della popolazione, tagliata fuori dal dibattito culturale e alle prese con un’altra storia, in parte posticcia, in parte rimossa, in parte profondamente differente.
(Stefania Ragusa)