Comincio l’intervista mettendo subito le cose in chiaro: sono una giornalista all’antica, niente selfie, niente Instagram, non registro neanche: parlo, ascolto, prendo appunti. Inoltre non ho particolari competenze musicali. Vedo il mondo che cambia attorno a me e con me dentro. Cerco quelle storie, quelle situazioni che, senza tante sovrastrutture, raccontano la bellezza e la sfida di una società sempre più meticcia. Le canzoni e la storia di Senhit mi interessano soprattutto da questa prospettiva. E cosa può esserci di più interessante di una cantante nera e italiana, con un ottimo curriculum artistico, che dopo avere calcato con i musical le scene di tutto il mondo sceglie di incidere i suoi dischi in italiano? «Già, cosa può esserci di più interessante?», dice lei sorridendo.
Classe 1979, nata e cresciuta a Bologna da genitori eritrei, si definisce italoeritrea con una forte vocazione bolognese. Il giorno in cui ci incontriamo Senith ha una specie di borsalino di paglia calcato in testa e indossa una camicia a quadri tartan. E’ alta, bella, solare, reduce da un qualche evento legato alla Milano Fashion Week. Il 19 settembre è uscito il suo singolo Un bel niente, che ha un bel testo, un bel sound e fa venire voglia di ballare per strada.
Dopo Dark Room, uscito qualche mese fa, è il secondo in italiano. Il suo management inizialmente non aveva visto di buon occhio la scelta di cantare in italiano: «Avevano paura che fosse limitante, quasi autopunitiva. E poi avevano dei timori legati al momento storico che stiamo attraversando. “Hai visto quello che sta succedendo in Italia?”, mi dicevano. “Continuando a cantare in inglese è più semplice avere un pubblico internazionale”. Io avevo visto perfettamente quello che stava e per certi versi sta ancora succedendo in Italia. E proprio per questo ho pensato che non potesse esserci un momento migliore per cantare in italiano».
D’altra parte è la tua lingua…
«Si, è una delle mie lingue, insieme al tigrigno, che ho sempre sentito parlare in casa. Usarla quando canto mi sembra logico ma anche giusto in un momento come questo, caratterizzato da grande confusione. Non è un gesto dimostrativo, a meno di voler considerare l’uso della propria lingua un’ostentazione».
Il pubblico ha apprezzato?
«Assolutamente sì, anche se c’è sempre qualcuno che non può fare a meno di insultare. Ma io tendenzialmente evito di cogliere le provocazioni. E’ una tattica che ho sempre usato e mi ha permesso di risolvere in anticipo tanti problemi».
Come comincia la tua storia di cantante?
«Con il Karaoke di Fiorello. Andavo alle medie. Nel pomeriggio facevo i compiti, poi guardavo la tv e sentivo musica. Ascoltavo mia mamma cantare e cantavo anche io, ma così, per piacere, senza velleità. Un giorno arriva la notizia che vicino a Bologna ci sarebbero state le audizioni per il Karaoke. Mi presento con un brano di Jovanotti che mi piaceva: Ragazzo fortunato. Mi ascoltano e poi una delle giudici mi dice: “Sei proprio una ragazza fortunata”. Mi avevano scelta. La mia vita è cambiata molto velocemente, ma mio padre non era d’accordo. Voleva che seguissi un percorso più canonico e concreto. Cantare non era per lui un lavoro vero. Mia madre invece mi ha lasciato sempre libera di scegliere. Mi sono diplomata. Ho fatto un anno all’università e poi ho scelto: non sarà un lavoro vero ma cantare è comunque la mia strada».
Tuo padre se la prese molto?
«Abbastanza, anche se aveva grandi momenti d’orgoglio. Per esempio quando fui chiamata dalla BBC, insieme ad altri cantanti e musicisti della diaspora eritrea, a fare una sorta di tour proprio in Eritrea. Per lui è stata una grande soddisfazione. Oggi comunque è contento, anche perché – credo – nessuno dei miei fratelli ha seguito le mie orme. Loro hanno tutti lavori veri».
All’inizio della tua carriera hai partecipato a molti musical
«Gli svizzeri Hair e Fame, Il Re Leone della Disney e poi Il Grande Campione con Massimo Ranieri. Il musical è una formidabile palestra formativa: unisce il canto al teatro, richiede un coinvolgimento totale ed espone anche al rischio del pubblico. Tu sei lì e loro ti guardano. Non puoi rifare la scena. Massimo Ranieri è stato un grande maestro ed è ancora per me un modello di professionalità e di rigore».
Fare i musical ti ha permesso di girare il mondo
«E’ stato bellissimo ma anche molto faticoso. Facevo sette spettacoli a settimana e mi stavo perdendo la mia famiglia e i miei amici. Avevo bisogno di una pausa e così ho preso un periodo sabbatico. E stato allora che è arrivata la proposta di Panini».
Panini delle figurine?
«Sono pochi a saperlo ma Panini oltre alle figurine fa molte altre cose in campo culturale e artistico, e produce anche musica. Ho incominciato a incidere i primi dischi e cantavo in inglese. Ho avuto successo».
Nel 2011 sei andata anche a Eurovision Song Contest
«Sì, ma non in rappresentanza dell’Italia, che quell’anno non ha partecipato. Sono andata in rappresentanza di San Marino. Eurovision è un contest molto interessante e stimolante, ha molto a che fare anche con il sentimento di appartenenza europeo ed è incredibile che in Italia sia così poco conosciuto. Mi piacerebbe molto tornare. Per farlo però dovrei prima vincere San Remo…».
Hai mai cantato in tigrigno?
«Canto spesso canzoni tigrigne ma non ho mai usato il tigrigno in nessuna delle mie canzoni fino ad ora. Potrebbe essere un’idea. Una buona idea. Sono molto legata alla mia parte eritrea, che convive e si intreccia tranquillamente e profittevolmente con quella bolognese. Sono entrambe vere, autentiche e la loro unione dà più di una semplice somma».
D’altra parte accostare e mescolare sono due operazioni dverse. All’inizio della nostra conversaziome hai detto di essere italoeritrea, perché non afroitaliana?
«Afroitaliana? Ma che parola è? Che senso ha mettere insieme un continente enorme e vario come l’Africa e una nazione come l’Italia? Potrei dire afroeuropea, ma è troppo vago, italoeritrea invece è la dimensione giusta ed è la parola che dice la verità sulla mia storia e sulle mie origini».
Come si combatte il razzismo?
«Con la verità, che non è un monolite, ma un quadro fatto di tante, minute, storie vere, con protagoniste persone come me o come te, che lavorano, si danno da fare, non hanno paura di mescolarsi e costruiscono il futuro. E poi con l’esempio e la concretezza. Facendo le cose, agendo con coerenza e consapevolezza. Io sono italiana, sono eritrea, sono nera. Di fronte a un dato obiettivo come questo, la discussione sulla possibilità che esistano o meno italiani neri è già terminata».
Stefania Ragusa
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