Le esportazioni dal Sudafrica di oro non dichiarato hanno rappresentato, tra il 2000 e il 2014, il 67% – per un valore di 78 miliardi di dollari – dell’export totale di questo metallo prezioso. Lo ha messo nero su bianco uno studio di Unctad, l’organizzazione Onu per il commercio e lo sviluppo. In Tanzania, la sola Acacia Gold Mining Plc ha provocato, nel ventennio 1997-2017, una perdita di 84 miliardi di dollari al Paese. E si potrebbe continuare con altri esempi.
Sono tutti casi in cui Paesi ricchi di risorse minerarie vedono volarsene via i potenziali benefici per le casse dello Stato e per il benessere delle popolazioni cui avrebbero diritto.
La Commissione europea – come ha illustrato di recente “Africa-Europe Faith and Justice Network” (Aefjn), la rete di cinquanta istituti missionari, basata a Bruxelles, dedita alla promozione della giustizia economica tra Ue e Africa – ha riconosciuto che le compagnie minerarie e l’industria estrattiva in Africa sono responsabili del 65% delle frodi fiscali nel continente. E gli Stati africani, da parte loro, cominciano a muoversi per correggere i Flussi finanziari illeciti (Ffi). Citiamo in particolare il nuovo codice minerario della Rd Congo, anche se tarda ad essere pienamente applicato.
Il fatto è che i meccanismi fraudolenti sono ben collaudati e riguardano ciascuna delle fasi operative – ne sono state individuate cinque –, dalle prospezioni in vista dell’apertura di nuovi siti da sfruttare fino al loro abbandono. Qualche esempio.
Già nel momento dell’esplorazione può cominciare la corruzione: per ottenere le autorizzazioni necessarie. E la stima della quantità e qualità dei minerali individuati può essere dichiarata al ribasso.
Quando si tratta poi di negoziare concessioni e licenze, con le imprese non dovrebbero interloquire le autorità locali ma il ministero competente. Non solo: il processo andrebbe monitorato da società indipendenti che certifichino la conformità con il codice minerario e la legislazione fiscale vigenti nel Paese, e con le regole internazionali.
La tappa della produzione e trasformazione è particolarmente critica, per il salario e le condizioni di lavoro della manodopera nonché per le ricadute ambientali. Qui si rende presente anche il rischio del contrabbando. Le multinazionali, spiega José Luis Gutiérrez Aranda di Aefjn, «possono servirsi della produzione delle piccole aziende e dei minatori artigianali al fine di ridurre più facilmente i costi di produzione e di pagare meno imposte, una volta che questa parte della produzione rimane al di fuori dei circuiti ufficiali».
Molti avranno in mente le immagini di minatori, spesso giovanissimi, che lavorano in condizioni infernali – per esempio nell’Est della Rd Congo – per paghe irrisorie. Estraggono coltan, cobalto… e tante altre materie prime preziosissime per il nostro stile di vita. Anche quando essi sono “lavoratori autonomi”, restano sempre dipendenti dal prezzo imposto da altri, su cui non hanno praticamente alcun potere di negoziazione. Un rapporto di Terre des Hommes uscito a novembre focalizza l’attenzione su un altro Paese e un altro minerale: la mica del Madagascar. La mica, un silicato che tra le sue qualità include la resistenza al calore, entra in un gran numero di manufatti, dai cosmetici all’automobile (per la verniciatura, ad esempio), ed è estratta da “minatori” che per metà hanno un’età tra i 5 e i 17 anni – circa 11.000 in cifra assoluta. Ragazzini che, oltretutto, per un pugno di centesimi respirano polveri sottili e si causano tagli sulle mani in continuazione. L’87% della mica malgascia approda in Cina, per poi essere utilizzata, precisa sempre Terre des Hommes, da aziende come le nipponiche Panasonic e Fujikura, o dall’italo-olandese Prysmian.
Tornado alla filiera che alimenta i flussi finanziari illeciti, viene poi il momento della “coppellazione” (analisi della qualità dei metalli) con la conseguente vendita ed esportazione. Denunciando quantità e qualità inferiori alla realtà, il valore della tassazione ovviamente scende. «Accade perfino – sottolinea Aefjn – che ci siano imprese che dichiarano perdite, e utilizzano altre aziende del medesimo gruppo residenti in paradisi fiscali per fissare prezzi di trasferimento fittizi».
Neppure la chiusura delle miniere dovrebbe sfuggire a una regolamentazione rigorosa. I codici minerari dovrebbero tra l’altro esigere che «venga fatto un restauro ambientale del sito minerario secondo le norme internazionali, in modo da dare alle popolazioni locali altre possibilità di utilizzo del sito stesso».
Trasparenza e tracciabilità sono insomma le parole chiave per mettere mano a questo settore particolarmente critico per un gran numero di aspetti. Ciò a cui invece si assiste è la frenetica attività delle lobby minerarie, che premono sui governi perché nulla cambi. Una delle armi mulinate dalle multinazionali è il ricatto: la minaccia di ritirare i propri investimenti diretti dai Paesi in questione. Minacce che peraltro, si osserva, non vengono messe mai in pratica – dato che il sottosuolo interessante per una compagnia mineraria è “lì”, e che i suoi profitti sono sempre di gran lunga superiori alle imposte che lascia localmente.
(Pier Maria Mazzola)