di Pierre Yambuya – foto di Tommy Trenchard / Panos Pictures
La Sierra Leone è tra i Paesi più vulnerabili e più esposti agli effetti nefasti dei cambiamenti climatici. A farne le spese, le popolazioni che vivono a ridosso del mare, come i pescatori di Nyangai. Su questa piccola isola – che sta scomparendo a vista d’occhio – si possono osservare le conseguenze dell’innalzamento delle acque oceaniche che minacciano milioni di persone in tutto il mondo.
L’acqua avanza inesorabile. Si porta via l’una dopo l’altra le capanne, sommerge interi villaggi. Al ritmo di crescita attuale, tra pochi anni avrà inghiottito l’intera isola. Nyangai, fazzoletto di terra al largo della Sierra Leone, rischia di sparire. Colpa dell’innalzamento del livello dell’Atlantico e del progressivo erodersi delle sue coste. Centinaia di abitanti sono già stati costretti a lasciare le proprie abitazioni e a trasferirsi sulla terraferma. Gli ultimi rimasti combattono ogni giorno una battaglia improba contro un nemico troppo forte che non si fermerà. Le immagini e le testimonianze raccolte sul posto dal fotografo britannico Tommy Trenchard sono eloquenti e ci raccontano l’agonia di un luogo-simbolo del nostro pianeta che sta soccombendo agli effetti devastanti dei cambiamenti climatici globali.
Kpana Charlie è un pescatore di 62 anni, nato e cresciuto a Nyangai. Quando era bambino, l’isola era molto più grande di oggi, quaranta-cinquanta volte la superficie attuale. Ai suoi occhi appariva come un paradiso galleggiante. Lunghe spiagge di sabbia bianca su cui giocare, acque calde e tranquille in cui nuotare, grandi alberi di mango su cui arrampicarsi per raccogliere i frutti. La sera, la comunità del suo villaggio si assiepava attorno al fuoco per ascoltare i racconti dei griot, i cantastorie, custodi delle leggende e delle storie tramandate da generazioni di pescatori. Oggi Nyangai è una bagnarola assediata dall’oceano. Solo dieci anni fa misurava ancora settecento metri di lunghezza da un capo all’altro, oggi è una striscia di terra lunga 90 metri e larga 70. Le foreste sono scomparse, sommerse dall’acqua salata, il campo da calcio, un tempo gremito di bambini, ora è inondato per 22 ore al giorno e riaffiora solo quando la marea si ritira.
Anche la casa della famiglia di Charlie è sparita da tempo, abbattuta dalle onde. «Nel giro di un paio di anni non resterà più nulla», dice l’uomo, padre di sei figli, che ora vive in un capanno fatto di bastoni e teloni. «Sta peggiorando sempre di più, la situazione si è fatta insostenibile, non c’è nessun posto dove sentirsi al sicuro».
Difendersi con i sacchi di sabbia
La Sierra Leone è uno dei Paesi più vulnerabili ed esposti al mondo agli impatti dei cambiamenti climatici. Un terzo della sua popolazione vive in zone costiere e dipende dalla pesca, il pil pro capite è di appena 2.000 dollari. Mancano le risorse finanziare per difendersi da ciò che sta avvenendo. E si prevede che entro la fine del secolo il livello globale dell’oceano aumenterà di almeno mezzo metro (secondo le previsioni più pessimistiche, potrebbe sfiorare il metro).
Dal suo ufficio nella capitale Freetown, Gabriel Kpaka, capo delle operazioni dell’Agenzia meteorologica della Sierra Leone, non nasconde la preoccupazione. «Stiamo assistendo a un aumento devastante del livello delle acque e le persone che abitano l’isola di Nyangai non hanno alcuna difesa», dice a Tommy Trenchard. «Tutto ciò di cui dispongono per proteggersi sono sacchi di sabbia con cui tentano di sbarrare le onde. Una difesa effimera. Se non interveniamo subito, l’impatto sulla popolazione non potrà che peggiorare». Nyangai fa parte di un gruppo di piccole isole che compongono l’arcipelago delle Isole Tartarughe. Si tratta di bassi affioramenti di sabbia frutto dell’erosione di un promontorio roccioso e accumulatisi nel corso di centinaia di anni per mano delle correnti che da sempre modellano la costa. Ma ciò che sta accadendo negli ultimi lustri è inedito, non assomiglia a nulla che gli isolani abbiano mai visto.
L’oceano non si ferma
Mustapha Kong, il capo tradizionale dell’isola, stima che vent’anni fa a Nyangai esistessero più di 500 case, in ciascuna delle quali vivevano in media 8 persone. Ne sono rimaste appena 70. Due dei tre villaggi esistenti un secolo fa sono spariti, sommersi dalle acque. «La gran parte della popolazione è partita, se n’è andata per mettersi in salvo nelle isole vicine o sulla terraferma», racconta. Stessa sorte che tocca ogni anno a 20 milioni di persone nel mondo: il numero di sfollati e migranti climatici. Karim Anso, 43 anni, originario di Nyangai, è uno di loro. «Ho dovuto arrendermi», dice sull’isola di Sei dove ha da poco iniziato una nuova vita. «Quando mi trovato a Nyangai la vita era diventata una battaglia quotidiana». Ogni volta che l’acqua distruggeva la sua casa, Anso ne costruiva un’altra più all’interno, in un posto riparato. Ma durava poco. Quando anche la quarta è stata spazzata via dalle onde, ha deciso di andarsene con la moglie e i quattro bambini. «È stata dura, mi si è spezzato il cuore, ma l’abbiamo fatto per i nostri figli, per dare loro un futuro».
Il territorio di Nyangai si è ridotto a un’esigua lingua di terra, ciò che resta delle comunità dei tre vecchi villaggi si è addensato in un unico abitato, ma nel 2015 il mare ha cominciato a divorare anche la parte centrale della striscia, separando la popolazione rimasta in due gruppi, divisi dall’oceano. Con la bassa marea, i bambini da un lato dell’isola, chiamato Mokontan, devono camminare nell’acqua per andare a scuola dall’altro lato, noto con il nome di Mobiaboi. Con l’alta marea, il pomeriggio, bisogna tornare a casa in canoa.
Rilevamenti scientifici ormai inutili
«Esistono pochi dati affidabili sul cambiamento del livello del mare in Sierra Leone», riferisce Tommy Trenchard. «Fino a due anni fa, il Paese non disponeva nemmeno di una stazione meteorologica marina in grado misurarlo. Uno studio sulla vulnerabilità climatica della Sierra Leone, condotto di recente da Usaid, ha rilevato che parti significative della sua costa stanno ritirandosi a un ritmo di 4-6 metri l’anno». La gente di Nyangai non ha gli strumenti né le conoscenze per calcolare l’entità del fenomeno, ma non occorre essere degli scienziati per accorgersi che l’acqua si avvicina ogni giorno di più e minaccia la tua casa. Non solo. Le tempeste si sono fatte più violenti e più frequenti, le precipitazioni e i venti più devastanti e meno prevedibili, le onde più minacciose e distruttive. A peggiorare le cose, la scomparsa delle foreste di mangrovie, le cui radici trattenevano la terra, rompevano le onde, fungevano da protezione per la popolazione. Ora non c’è nulla che possa proteggere dall’avanzata del mare.
Ma io resto fino all’ultimo
Quando Charlie era piccolo non gli era mai passato per la mente che l’isola su cui la sua famiglia viveva da tre generazioni potesse essere seriamente a rischio dal mare. Ma una dozzina di anni fa ha capito che stava accadendo qualcosa di grave. «Era una notte di agosto del 2012 e fummo svegliati dai venti ululanti di una tempesta improvvisa». Le onde si infrangevano sui muri delle case. A mezzanotte il panico aveva preso il sopravvento, mentre le famiglie cercavano disperatamente di mettersi in salvo. Quando la bufera finalmente si calmò, decine di case erano state spazzate via. «Eravamo terrorizzati», racconta Charlie. «La mattina seguente decisi di andarmene via con la mia famiglia. Eravamo salvi per miracolo, non potevamo continuare a sfidare la sorte».
In realtà Charlie tornò sui suoi passi e non se la sentì di lasciare Nyangai per ricominciare tutto da capo altrove. Trasferirsi era impegnativo, forse un azzardo. E poi l’isola faceva parte della sua storia, del suo Dna. «Qui sono sepolti i miei avi. Per molti secoli questo luogo ha rappresentato una benedizione, circondato com’è da acque pescose, privo di serpenti e con pochissima malaria». La famiglia di Charlie è stata tra le poche a decidere di restare e di resistere. «Ma non mi faccio illusioni», dice l’uomo. «So bene che è solo una questione di tempo, prima o poi dovremo andarcene sul serio. Abbiamo già i piedi nell’acqua. Meglio prepararsi al peggio, quantomeno con la testa».
Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.