Sierra Leone: il dragone e il leone

di claudia

di Federico Monica – foto di Simon Townsley / Panos Pictures

Cina e Sierra Leone: una relazione complicata, fatta di grandi infatuazioni e bruschi risvegli. La presenza cinese in Sierra Leone sembra seguire un percorso simile a quello di tanti Paesi africani, fra accordi bilaterali ed enormi investimenti infrastrutturali. Eppure, a uno sguardo più attento il piccolo Paese sull’Atlantico rappresenta un unicum nei rapporti con Pechino

Freetown, 1971. La città è invasa da migliaia di bandierine rosse di carta velina che si sciolgono sotto la pioggia tropicale: sono su ogni lampione, appese alle fronde degli alberi o ai pali della luce, e frotte di bambini urlanti le sventolano lungo le strade al passaggio di un corteo di Rolls-Royce nere.

Salutano il primo ministro Siaka Stevens di ritorno da Pechino, dove ha ricevuto la benedizione di Mao Tse-tung e la firma di un trattato di amicizia e cooperazione fra Cina e Sierra Leone. La storia delle relazioni tutte particolari fra i due Paesi inizia così, da un accordo che porterà in breve tempo all’installazione di una nutrita comunità di tecnici e operai specializzati a Brookfields, un quartiere a ridosso del centro urbano, in un grande compound che diventerà la prima Chinatown di Freetown.

Proprio nel quartiere venne realizzato dapprima un nuovo stadio intitolato, guarda caso, allo stesso Siaka Stevens, mentre ad alcune decine di metri di distanza si gettavano le fondamenta dello Youyi Building, un imponente e anonimo palazzo bianco che ospita la maggior parte dei ministeri e dei rispettivi uffici.

Pochi anni più tardi, Stevens abolirà i diritti politici raffreddando i rapporti storici col Regno Unito e creando un regime a partito unico ispirato proprio al modello cinese. La cooperazione fra i due Paesi resiste alla scomparsa di Mao ma non alla guerra civile che, partita nel 1991 dalle regioni diamantifere dell’est, si diffonde ben presto per tutta la Sierra Leone causando dieci anni di devastazioni e sofferenze.

Un lavoratore cinese dell’impresa Hongtai si concede una pausa dal lavoro di estrazione del granito nelle vicinanze del Western Area National Park

La seconda ondata cinese

“L’uomo nero non ama l’uomo giallo”, sentenzia con amarezza il protagonista di un racconto di Bruce Chatwin, un mercante di stoffe cinese ammalato di sifilide e bloccato a Freetown, in una città – e in un mondo – che percepisce lontani e ostili. Pochi anni dopo, a meno di un decennio dalla fine del conflitto, quello stesso uomo in preda alla disperazione avrebbe senz’altro faticato a credere ai suoi occhi. Fra il 2005 e il 2015, infatti, in linea con gran parte del continente, arriva la seconda travolgente ondata di investimenti nel Paese. La “febbre cinese” raggiunge il suo apice intorno al 2010, quando il governo dell’Apc di Ernest Koroma affida agli investimenti cinesi il suo destino politico, portando a casa numerosi progetti di sviluppo infrastrutturale ma cedendo, in cambio, concessioni minerarie, grandi appezzamenti di terreni fertili, addirittura miniere di granito nelle aree forestali protette che circondano la capitale.

Alla scadenza del secondo mandato di Koroma, il rapporto fra la Cina e il governo uscente è talmente stretto che diventa uno dei principali temi di scontro nella campagna elettorale: le opposizioni promettono di rinegoziare i rapporti con il dragone, mentre i simpatizzanti dell’Apc scendono nelle piazze cantando slogan come “We are all Chinese”. Se gli investimenti infrastrutturali o gli accordi commerciali non sono nulla di particolarmente nuovo rispetto al resto del continente, l’endorsement più o meno velato di un partito è un inedito assoluto. E alle manifestazioni dell’Apc si vedono addirittura alcuni cittadini cinesi.

L’aeroporto fantasma

Il vero tema che infiamma la campagna elettorale è però l’aeroporto internazionale. Dato che Freetown sorge su una penisola montuosa, l’aeroporto si trova oggi al di là di una grande baia e per raggiungerlo è necessario un viaggio di alcune ore in auto oppure un tragitto su ferry boat. Per superare il problema, visto come un ostacolo all’attrattività del Paese, il governo uscente ha lanciato in pompa magna il progetto di una nuova infrastruttura, a una quarantina di chilometri dalla capitale. Un’opera che rientra nella “Belt and Road Initiative” e che potrà quindi beneficiare dei fondi e delle capacità tecniche e ingegneristiche cinesi. Secondo le opposizioni si tratta di un’opera faraonica e inutile, in grado di mettere definitivamente in crisi un’economia già piegata dall’epidemia di ebola di pochi anni prima.

Difficile dire quanto abbiano pesato questi temi sull’esito del voto, fatto sta che l’Apc dopo otto anni di governo perde il potere e il risultato è visto da molti come una sonora battuta d’arresto per le politiche espansionistiche di Pechino nel continente. C’è di più: uno degli atti con cui il nuovo presidente Julius Maada Bio inaugura il suo mandato è proprio la cancellazione del controverso progetto dell’aeroporto. Ancora una volta la Sierra Leone si distingue: è il primo Paese che osi cancellare un intervento della Belt and Road initiative.

Scandali sino-leonesi

Freetown, 2021. Sono passati cinquant’anni da quel giorno del 1971, la cittadina verde e sonnolenta è diventata una metropoli caotica e ingestibile, le incessanti piogge estive non sciolgono più le bandierine rosse di carta, ma decine di manifesti che tappezzano i muri per celebrare l’anniversario dell’amicizia tra Cina e Sierra Leone.

Il gelo fra Pechino e Freetown infatti non dura che pochi giorni, giusto il tempo di organizzare il primo viaggio all’estero del neopresidente, guarda caso proprio in Cina, dove in una serie di incontri bilaterali si lanciano nuovi ambiziosi programmi di cooperazione.

Nulla sembra essere cambiato, specialmente quando nell’arco di pochi mesi scoppiano due scandali paralleli: il primo vede coinvolto l’esercito, chiamato dal governo a difendere le miniere di granito dai sopralluoghi dei rangers che dovrebbero proteggere la foresta pluviale; un cortocircuito inquietante fra tutela dell’ambiente e sfruttamento delle risorse. Il secondo riguarda un progetto inizialmente segreto che devasterebbe 250 acri di foresta pluviale e l’area marina protetta di Black Johnson alle porte di Freetown per realizzare un porto per i pescherecci cinesi. La società civile non ci sta e, scoperto il piano, inizia una serie di inchieste: mancano gli studi di impatto ambientale e quando vengono presentati appare chiaro che sono stati redatti da società cinesi come foglia di fico per giustificare l’intervento.

Alle inchieste indipendenti seguono le proteste, il fatto assume un rilievo internazionale e il governo è costretto a una precipitosa marcia indietro, annullando decreti e accordi e sospendendo il progetto a data da definirsi.

Tito Gbandewa, un residente della spiaggia di Black Johnson, a sud di Freetown. Questo territorio di straordinario valore naturalistico rischia di essere sconvolto da una grande opera cinese: un porto industriale

Nuovi competitors

Quello di Black Johnson è un altro evento epocale: i progetti e gli investimenti cinesi non sono più visti esclusivamente come fonte di sviluppo e lavoro, ma ne vengono percepiti il rischio ambientale e le implicazioni di trasformazioni forti del territorio. Un campanello di allarme per Pechino che, sebbene dal 2000 abbia decuplicato i suoi investimenti nel Paese africano raggiungendo la cifra di 600 milioni di dollari l’anno, si trova a dover fronteggiare nuovi e inattesi competitors. Gli Emirati, per esempio, con grandi investimenti nel settore agroindustriale, o la Turchia, che grazie alle sue centrali elettriche galleggianti – navi in grado di produrre e fornire elettricità –offre risposte tanto efficaci quanto poco sostenibili alla fame di energia delle metropoli africane, e che si pone quindi come partner strategico di un settore fondamentale per l’economia e la stabilità del Paese.

Altri Paesi sembrano aver scelto Freetown come banco di prova per una possibile penetrazione futura del continente, come la Corea del Sud, che ha recentemente finanziato e realizzato il nuovo municipio della capitale: un altissimo grattacielo in vetro e acciaio che svetta sulla città al posto delle rovine del vecchio comune distrutto durante la guerra civile. Attori nuovi che disegnano inedite rotte geopolitiche, ponendosi come competitori diretti degli interessi di Pechino, numericamente ancora poco rilevanti ma decisi a ritagliarsi un posto al sole sempre più importante.

Il soft power della cultura

Pensare che la strategia di Pechino si basi solo su infrastrutture e sfruttamento delle risorse sarebbe però un grossolano errore; a fianco di queste attività sono sorte cliniche e ospedali, servizi, progetti umanitari, ma soprattutto progetti culturali. Ed è proprio questo un altro aspetto che fa della Sierra Leone un laboratorio particolare per le politiche cinesi nel continente africano: lo sviluppo di una serie di iniziative di soft power, legate soprattutto alla promozione della cultura e della lingua. In alcune scuole primarie sono stati inseriti corsi di alfabetizzazione in mandarino, così come alla maggiore università di Freetown, il Fourah Bay College, che dal 2020 offre addirittura un intero corso di laurea in lingua cinese oltre a borse di studio per gli studenti più meritevoli.

In un Paese che conta quasi un milione e mezzo di ragazzi in età scolare questi programmi sembrano una goccia nel mare, ma i numeri di beneficiari e studenti sono in costante crescita. La regia di questa serie di iniziative è affidata all’Istituto Confucio, insediato in Sierra Leone da oltre dieci anni, e molto attivo anche dal punto di vista mediatico.

Lavoratore cinese dell’azienda Hongtai in una cava di granito

«Però ci fanno le strade»

Oltre alle borse di studio l’istituto promuove infatti concorsi di lettura o di canto in cinese, produce articoli che vengono pubblicati a pagamento sui maggiori quotidiani del Paese e realizza addirittura un programma radio settimanale sui media cinesi. «La Sierra Leone adora la nostra lingua e la nostra cultura», fa sapere soddisfatto il neodirettore dell’istituto. Lungo la strada per Lumley è quasi sera, il sole scende rapido verso l’oceano e la gente si affretta per rientrare prima che cali il buio; passeggiando con Kevin, studente di ingegneria e telecomunicazioni, discutiamo del ruolo della Cina, degli impatti sociali e ambientali, di modelli di sviluppo. «Voi europei ci avete sfruttati per secoli, non avete lasciato nulla e ora volete dirci cosa fare», mi dice. «Almeno i cinesi ci hanno fatto le strade!».

Ha ragione, ma non riesco a trattenere un sorriso amaro mentre passiamo a fianco di un gruppo di giovanissimi ragazzi e ragazze dai tratti orientali che si scattano selfie intorno a un suv luccicante parcheggiato sulla spiaggia. Chissà se un giorno si diranno: «Però gli abbiamo fatto le strade»…

Questo articolo è uscito sul numero 1/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

Condividi

Altre letture correlate: