Quattro anni fa la capitale della Sierra Leone veniva sconvolta da un’enorme frana, una tragedia annunciata, dovuta innanzitutto alla deforestazione e alla crescita urbana incontrollata. Problemi che purtroppo negli ultimi anni non sembrano essere cambiati.
di Federico Monica
Esattamente quattro anni fa, nella notte del 14 agosto 2017 durante un forte temporale uno strano boato scuote la località di Regent, sulle colline che circondano Freetown. La confusione è grande, nelle strade si urla e c’è chi parla di un’alluvione, chi di un’esplosione o di persone sepolte nel fango, ma solo alle luci dell’alba sarà possibile comprendere l’entità della tragedia: l’intero versante di una collina è franato improvvisamente trascinando con sé case e persone, un immenso squarcio di terra rossa nel verde della foresta.
Il bilancio delle vittime è impressionante: si contano infatti 1141 morti, molti dei quali mai ritrovati, e oltre 3000 persone rimaste senza un riparo, non solo nella comunità colpita dalla frana ma anche nel sobborgo di Lumley, cinque chilometri più a valle, in cui le case sono state travolte dall’ondata di piena e dai detriti. Più che una fatalità una tragedia annunciata, negli ultimi vent’anni infatti la capitale della Sierra Leone è cresciuta a dismisura e a causa della mancanza di spazi dovuta alla conformazione della penisola si è iniziato a disboscare sistematicamente i ripidi versanti delle colline per edificarli. Quella che era la cintura verde della città, vallate e rilievi coperti da una fitta foresta pluviale, è stata cancellata da speculatori o privati cittadini con la complicità di funzionari corrotti.
Quattro anni dopo
La maggior parte delle nuove costruzioni infatti non è dovuta a insediamenti informali o ripari di necessità ma da abitazioni della classe media; la realizzazione di nuove strade urbane ha poi reso accessibili zone un tempo remote, come appunto le aree di Leicester e Regent, causando in breve tempo deforestazione e cementificazione. Purtroppo il più grande disastro nella storia della città non sembra aver lasciato il segno, se l’area della frana è rimasta completamente inedificata negli ultimi quattro anni l’impronta urbana è cresciuta ulteriormente, sempre in zone remote e su pendii, sempre a discapito di boschi e foreste. La vallata che collega Regent ad Hastings, nell’estrema periferia est della città è diventata una via d’accesso strategica per il centro dopo l’ammodernamento della vecchia strada coloniale che l’attraversava e l’ambiente naturale che ancora nel 2017 caratterizzava gran parte del percorso ha lasciato il posto al susseguirsi di cumuli di mattoni in cemento, muri di cinta o edifici in costruzione.
La corsa alla città non dà segni di rallentamento e nonostante l’impegno della sindaca Yvonne Aky Sawyerr a invertire la rotta e ripristinare il patrimonio verde della città piantando un milione di alberi, l’impressione è che un nuovo disastro addirittura peggiore di quello del 14 agosto 2017 possa accadere in qualsiasi momento. Una data che sembra essere maledetta: esattamente un anno dopo, il 14 agosto 2018 è il giorno del crollo del ponte Morandi. Freetown e Genova, due città lontanissime ma straordinariamente simili, strette tra mare e montagne, in un territorio fragile e compromesso, senza più spazio e con connessioni impossibili.
Città complesse, messe in crisi da problemi che non ammettono soluzioni semplici, anzi, città per le quali probabilmente non esistono né esisteranno mai vere e proprie soluzioni; da un lato una tragica maledizione, dall’altro ciò che le rende uniche e meravigliose.
(Federico Monica)