Ignazio De Francesco, un monaco con esperienza di Medio Oriente e conoscenza di islam, legge la recente intervista rilasciata da Silvia “Aisha” Romano anche alla luce di quello che le sue parole non dicono.
Dell’intervista a Silvia Romano [pubblicata su La Luce. Una voce che illumina, una settimana fa], diventata Aisha durante il suo lungo rapimento in Africa, mi ha particolarmente interessato il tema della libertà. A muovermi non è solo l’affetto per lei (angoscia, preghiere e, infine, gioia di rivederla tornare sana e salva, a prescindere dal vestito) ma anche il lavoro di studio dell’islam e quello di osservazione diretta delle conversioni in stato di detenzione. Per entrambi i motivi il testo pubblicato su un sito islamico italiano merita attenzione.
Noto preliminarmente che il taglio apologetico (così mi sembra) ne attenua il valore documentario. Il tratto di propaganda religiosa fa parte evidente (così a me sembra) delle finalità del testo, cosa che spinge chi legge a cercare le informazioni “tra le righe”.
Apologia interiore
Mi sembra innegabile che l’intervistata presenti la propria conversione all’islam (i musulmani amano dire “ritorno”) come un movimento tutto interiore, una ricerca dentro di sé in un momento di eccezionale gravità. La paura è stata indubbiamente – secondo quanto si può leggere – una chiave o meglio una leva del movimento verso l’Assoluto. Paura doppiamente teologica: la paura di Dio (sensazione che l’accaduto possa essere una punizione divina) e l’approdo a Dio come rifugio dalla paura. Si cerca protezione da Dio in Dio.
Questa dialettica nell’intimo invisibile immateriale ha potuto avvalersi del rapporto con un oggetto tangibile, il Libro. Il Corano accostato prima in lettura corsiva e successivamente meditato con più attenzione, incluso lo sforzo mnemonico. Lo si può paragonare al tronco che appare al naufrago tra le onde agitate in una notte di tempesta. Malgrado la descrizione di un contesto interiore di ridotta libertà (la paura), Silvia Aisha tiene però ad affermare di essersi sentita «libera di accettare o meno» quella che chiama la guida di Dio. Non si può sorvolare su questo dettaglio.
In questo movimento di scoperta interiore manca però qualsiasi cenno al contesto esterno. È un dato che sorprende. È come se il mondo intorno non esistesse, a parte un cenno alla cella e a un bombardamento notturno. Soprattutto non v’è alcun riferimento alle persone.
Non sono le notizie di intelligence che mi interessano (non mi occupo di queste cose) ma osservazioni come quelle di Beppe Pierantoni, ad esempio, il religioso dehoniano per sei mesi in mano a un gruppo di guerriglieri islamici filippini nel 2001, ricchissime di dati per capire un mondo. Qui invece non trapela nulla.
Esercizi di religione
Per fare qualche esempio in tema: Silvia Aisha racconta di avere iniziato a pregare senza saper pregare, cosa molto vera e anche molto bella. Una volta convertitasi, da chi ha appreso a fare le abluzioni rituali? Da chi ha appreso i movimenti e le formule precise della preghiera rituale? Che cosa ha notato della vita di pietà intorno a sé?
L’impressione è allora quella di una conversione che avviene nel vuoto, al di fuori di qualsiasi relazione, come se fosse stata detenuta su un’isola deserta. Può essere che sia andata così, anche se personalmente lo ritengo improbabile.
Continuo ad assumere il racconto della “scoperta interiore” come un dato biografico attendibile, anche se incompleto. Forse ci vorrà del tempo a colmare questo vuoto, ma credo sia utile farlo, per lei stessa. Il moto di scoperta tutto interiore intangibile invisibile si è poi tradotto nel segno visibile dell’adozione di un abito diverso da quelli indossati in precedenza. Ed è a proposito dell’abito che nell’intervista torna la parola “libertà”, in un passaggio cruciale: «Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi e offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale».
Con il suo nuovo abito Silvia Aisha sente di compiere un atto di libertà, sciogliendosi da ciò che percepisce come stereotipi di comportamento che imprigionano e mercificano la donna. È un’opinione che va rispettata.
Libertà e obbedienza
Allo stesso tempo, vorrei proporle alcuni spunti di riflessione: il primo è che la libertà conquistata l’ha introdotta in un nuovo regime di obbedienza e molto stretta. Senza sminuire il lato mistico/interiore dell’islam, sperimentato nel momento della conversione, è evidente che la dimensione dell’obbedienza è al cuore dell’islam, religione che si articola in un sistema molto minuto di norme, incluso il modo di entrare e uscire dal bagno. È per questo che il mufti o giureconsulto è una figura così centrale nella vita quotidiana, chiamato a rispondere a miriadi di domande su “che cosa devo fare?”.
Il secondo punto riguarda l’effetto mercificante dell’abbigliamento femminile non islamico: le storture sono sotto gli occhi di tutti, ma credo che un giudizio così tranciante sia altamente ideologico, dunque irrealistico. Anche perché, se si vuole ragionare sulla potenza di attrazione e seduzione dell’abito femminile, bisognerebbe soffermarsi proprio su quello islamico.
In tanti anni trascorsi in Medio Oriente ho appreso da fonti dirette che c’è tutta un’arte di acconciarlo, velo incluso, per mettere straordinariamente in rilievo la bellezza femminile piuttosto che celarla. Quando Silvia Aisha aggiunge che, girando per strada sente «gli occhi della gente addosso» esprime con tutta sincerità un paradosso: in un contesto come quello italiano/europeo, l’abito islamico ottiene l’effetto opposto di quello voluto dalla shari’a. Invece di nasconderla agli sguardi estranei, la mette in vetrina.
Questo rovesciamento dello scopo al quale è preordinata la norma dell’abito (che – attenzione! – non è una bandiera come spesso si afferma) dovrebbe a mio avviso spingere a riflettere bene i giuristi musulmani, chiamati ad adeguare lo spirito delle norme al tempo e al luogo.
Merita infine stimolare Silvia Aisha a riflettere su un altro paradosso: I fenomeni di mercificazione del corpo della donna proprio tra le mura domestiche, dove scioglie il velo, depone il lungo soprabito e deve aprire un altro guardaroba, per accontentare i gusti del marito. Su questa “doppia vita”, a volte particolarmente lacerante, una musulmana di assoluta osservanza come Shirine Dakouri ha scritto (tra altre) pagine particolarmente severe (La donna araba tra presenza e assenza. L’harem del XXI secolo).
Il sogno e la religione
Questi spunti di riflessione non intendono sminuire il valore dell’atto con cui Silvia è diventata Aisha, nome che afferma di avere ricevuto in sogno, tratto mistico e curioso allo stesso tempo: nella visione notturna era stampigliato sul biglietto della metro. “Aisha” può dunque valere come nome-sintesi di un cammino di libertà da una condizione oggettiva di prigionia (in Africa) che avrebbe fatto impazzire chiunque, mentre lei ha resistito mostrando una tempra eccezionale.
Perché mai negare che la religione abbia giocato una parte importante in questa straordinaria tenuta? Al nome-simbolo della sua nuova libertà non deve però dimenticare di aggiungerne un altro: Silvia. È il nome con il quale è stata iscritta nel registro dell’anagrafe quando è nata. Molto più che un mero atto burocratico: è l’incorporazione in una cittadinanza che, attraverso la Costituzione repubblicana e antifascista, le ha riconosciuto I più alti diritti individuali. Tra questi diritti riconosciuti (nota bene: non “concessi”) dalla Costituzione c’è anche la libertà di coscienza.
La Costituzione
Se, tornando a Milano, ha potuto trasalire di gioia nel vedere tanti musulmani italiani venuti ad accoglierla, deve dire grazie a quella Costituzione, poche paginette che non pretendono di scendere da una divina ispirazione ma che sono, nondimeno, la legge sovrana di chi vive in Italia, musulmani inclusi. Anche la Costituzione è paragonabile al tronco che compare al naufrago tra le onde in una notte di tempesta, e unita al tronco del proprio libro sacro (o della propria filosofia di vita, qualunque essa sia) compone una zattera, che consente allora non solo di stare a galla ma anche di navigare insieme ad altri, “diversi da sé”.
Se possiamo ritenere non solo ignobili ma anche incivili coloro che l’hanno insultata e fatta soffrire, dopo tante sofferenze patite oltremare, è perché la nostra legge fondamentale è quella Costituzione lì, che fa della scelta religiosa (o areligiosa) una decisione personale insindacabile. In tema di libertà religiosa l’universo islamico fa prevalere il diritto della comunità su quello dell’individuo. Grazie a quel libretto, in Italia vale l’opposto, ed è per questo che la cittadina Silvia garantisce a sorella Aisha di essere ciò che vuol essere. Oggi e domani.
Ignazio De Francesco per SettimanaNews
L’autore di questo articolo è monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, la comunità fondata da Giuseppe Dossetti. Si occupa di letteratura cristiana antica in lingua siriaca e di fonti islamiche dell’epoca classica. Collabora con il Gruppo Islam dell’Ufficio nazionale ecumenismo e dialogo interreligioso-Cei ed è delegato per il dialogo della Chiesa di Bologna. Nel 2013 ha conseguito il dottorato presso il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica (Pisai) di Roma. La sua tesi è stata pubblicata l’anno seguente con il titolo Il lato segreto delle azioni. La dottrina dell’intenzione nella formazione dell’islam come sistema di religione, etica e diritto. La sua esperienza con i detenuti musulmani è invece descritta in Leila della tempesta (2016), opera che circola anche come pièce teatrale. [Dal sito della Fondazione Oasis di Milano per il dialogo islamo-cristiano].