Silvia Romano è arrivetà oggi alle ore 14 all’aeroporto di Ciampino. Ad attenderla c’erano i famigliari e le più alte cariche dello Stato. E’ finito così nel migliore dei modi un incubo durato un anno e mezzo.
Abbiamo chiesto ad Angelo Ferrari, il giornalista dell’Agi che più di tutti ha seguito la travagliata vicenda della volontaria milanese, autore del libro “Silvia. Diario di un rapimento”, di fare luce sulle tante ombre che avvolgono questa drammatica storia e raccontare com’è avvenuta la liberazione della giovane cooperante che ieri ha fatto sussultare di gioia l’Italia.
“Ci sono state, in questi sei lunghi mesi, provocazioni, fake news, oscenità e una diffusa disattenzione”, ha commentato Ferrari. “Il ritorno a casa di Silvia Romano significa anche rimettere le cose a posto nei confronti di chi in Africa opera, rischiando molto più di chi si permette di commentare sui social, offrendo aiuto a chi ne ha più bisogno. Vederla libera è una gioia e una liberazione per tutte e tutti noi”. Di seguito, la sua ricostruzione.
“Sto bene e non vedo l’ora di tornare in Italia…sono stata forte e ho resistito”. Sono le prime parole di Silvia Romano “libera”. Una notizia secca dettata dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è diventata liberatoria, non solo per Silvia, ma per tutti quelle persone che le vogliono bene. Diciotto mesi di angoscia per la sua sorte sono svaniti di colpo. Questo pomeriggio arriverà in Italia, a Roma, con un volo dell’Aise. La giovane volontaria italiana è stata liberta a circa 30 chilometri da Mogadiscio, la capitale della Somalia, in una zona in condizioni estreme per le alluvioni degli ultimi giorni. Un’operazione condotta dagli uomini del servizio di intelligence esterno dell’Italia con la “collaborazione determinante” dell’intelligence turca e somala.
Una notizia liberatoria anche per gli abitanti di Chakama, il villaggio del Kenya dove lei operava e dove è stata rapita. Nel febbraio scorso ho potuto visitare quel villaggio in mezzo alla savana, insieme all’amico e collega Freddie del Curatolo, direttore del portale degli italiani in Kenya. Per arrivare a Chakama, partendo da Malindi, si prende la strada dei safari, quella che porta al parco dello Tsavo-Est, una delle mete più gettonate dai turisti che arrivano in Kenya. Una strada asfaltata, che solca la savana. Il paesaggio – come spesso accade in Kenya – è mozzafiato, soprattutto quando si scollina e davanti agli occhi ti appare tutta la bellezza della savana punteggiata da baobab e sul lato destro appare l’ansa del fiume Galana. Lungo la via del safari, a un certo punto – occorre stare bene attenti ai cippi stradali che riportano le indicazioni – si taglia a destra e si entra nella pista di terra rossa che porta a Chakama. Poco prima si passa da Langobaya dove si trova il posto di polizia più vicino al luogo del rapimento. Da lì è partita la pattuglia, arriva in meno di mezzora, ma troppo tardi.
Chakama è un villaggio sonnacchioso, poche case intorno alla pista di terra rossa che spacca a metà l’abitato. Dal giorno del rapimento di Silvia tutto si è fermato. Nessuno ha proseguito l’attività di aiuto alla popolazione che tenacemente portava avanti la volontaria. Tutto fermo. Ma ieri, proprio Freddie ha chiamato il capo villaggio Albert Charo per dargli la notizia della liberazione. E anche in quel villaggio è scoppiata la gioia. “Siamo felici”, dice Charo. “Ora vado a dare la notizia a tutti quanti. Qui tutti vorrebbero abbracciarla, speriamo torni presto tra noi”. Anche a Chakama l’angoscia è svanita di colpo, è bastata una telefonata per ridare vigore alla “vita”. E anche per me, che ho seguito questa triste vicenda giorno per giorno per l’Agenzia Italia, l’angoscia è sparita in un attimo, quasi non ci fosse mai stata.
Silvia, dunque, è libera. Una notizia bellissima e inattesa – dopo quasi 18 mesi – la liberazione della giovane cooperante rapita il 20 novembre del 2018 a Chakama, un villaggio a 80 chilometri da Malindi in Kenya. Silvia è stata sequestrata da un banda di 8 criminali comuni che poi l’hanno venduta ai terroristi somali di Al Shabaab e portata in Somalia, dove è stata liberata. Tre dei sequestratori – Moses Luwali Chembe, Abdalla Gababa Wario e Ibraihm Adam Omar – sono stati arrestati e sono, tutt’ora sotto processo, anche se le udienze sono state interrotte a causa dell’epidemia di coronavirus che sta colpendo anche il Kenya. Uno dei tre, Adam Omar, in libertà su cauzione e considerato l’uomo più pericoloso dei tre, è latitate, ha fatto perdere le sue tracce. Da allora, dal giorno dell’arresto dei tre uomini, è cioè il 26 dicembre 2018, non si è saputo più nulla, o meglio non trapelava più nulla dalle maglie degli inquirenti. Si sapeva solo che il giorno di Natale Silvia Romano era in vita. Una notizia certo importante, ma che non dava nessuna sicurezza sulla sua sorte a partire da quel giorno.
Sulla vicenda si sono fatte solo ipotesi. Studiate le possibili vie di fuga, i rifugi, le complicità in un sequestro che da subito appariva anomalo, da quando si è capito che a rapirla erano stati dei criminali comuni. In poche ore, infatti, è caduta la pista del terrorismo somalo che, tuttavia, rimaneva sullo sfondo, come se fosse ciò che bisognava scongiurare. Per arrivare alla Somalia la strada è lunga. I rapitori hanno dovuto attraversare il fiume Galana. Un corso d’acqua che non ha ponti, si può attraversarlo in piroga o guadarlo quando l’afflusso di acqua è scarso. I rapitori hanno scelto con cura questo momento. La volontaria italiana, infatti, nei giorni che hanno preceduto il sequestro è stata seguita, ne hanno studiato le abitudini. Dal luogo del rapimento non è molto distante. E proprio dalle sponde di questo fiume ho provato a capire quali potessero essere le vie di fuga. Guardando un poco a destra si immagina la cittadina di Garsen dove, si dice, sia passata Silvia, attraversando il fiume Tana river e addentrandosi, poi, nella foresta di Boni verso il confine con la Somalia. Una foresta insidiosa, luogo prediletto di briganti, criminali e terroristi. Una vegetazione inestricabile. Ma la savana e la boscaglia sono vaste, poco abitate, nascondiglio perfetto. Facile eclissarsi, sfuggire alla polizia che insegue.
La seconda ipotesi, che piano piano si faceva largo è che il rapimento fosse avvenuto su commissione, i mandanti sarebbero stati proprio i terroristi di al Shabaab. Ipotesi, supposizioni, silenzi prolungati, notizie che non arrivavano, non hanno fatto altro che alimentare congetture improponibili, come quelle che il suo rapimento fosse legato a un traffico di avorio, oppure che la giovane italiana dovesse sparire perché sapeva troppo, o meglio avesse denunciato un sacerdote di pedofilia. Tutte congetture che non hanno avuto nessun riscontro reale.
L’unica certezza, fino a quel momento, è che Silvia Romano, fosse in vita il giorno di Natale. L’altra certezza è che gli inquirenti continuavano nel loro lavoro di intelligence e di ricerca. Non solo, ma anche la collaborazione tra inquirenti italiani e keniani c’è sempre stata anche se ha avuto momenti difficili, ma si è rafforzata dopo la rogatoria del Pm di Roma Sergio Colaiocco. Uno scambio di documenti e informazioni, che ha portano i carabinieri dei Ros ha rafforzare la convinzione che Silvia Romano si trovasse in Somalia. In base alle analisi dei documenti messi a disposizione delle autorità keniane, gli inquirenti sono arrivati alla conclusione che la giovane italiana si troverebbe in un’area del Paese, la Somalia, dove gravitano milizie locali legate al gruppo terroristico di matrice islamica, gli al Shabaab, appunto. Si tratta di una notizia importante, tanto che i magistrati, all’epoca, hanno valutato l’ipotesi di una rogatoria internazionale alle autorità somale.
Il silenzio, poi, è tornato su questa triste vicenda. Nessuno ha mai smesso di credere che si stesse lavorando per la sua liberazione, ma nemmeno una notizia, finché il 30 settembre del 2019 fonti di intelligence italiane hanno detto all’Agi che Silvia Romano “è viva” e “si sta lavorando per riportarla a casa, poi il 18 novembre dello stesso anno la notizia: si trova in Somalia. E le notizie si fermano qui. Solo dichiarazioni di circostanza, ipotesi. Ma ancora, soprattutto un silenzio inspiegabile, per molti versi incomprensibile. Ma soprattutto non si è mai saputo se la nostra intelligence stesse trattando e con chi, e se avesse in mano una prova in vita della giovane volontaria italiana, visto che l’ultima risaliva al Natale 2018.
Qualche speranza, si riapre, intorno alla metà di febbraio di quest’anno, quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della cerimonia di inaugurazione di “Padova capitale del volontariato”, le ha dedicato un pensiero, anche se preoccupato. Mattarella ha espresso “l’apprensione per le sorti di Silvia Romano, la giovane rapita in Kenya mentre svolgeva la sua opera generosa di solidarietà e di pace. Da Padova-capitale non può mancare per lei il nostro pensiero, che si unisce al costante impegno delle istituzioni per ottenerne la liberazione”. Il presidente dell Repubblica ha rotto un silenzio incomprensibile mettendo in campo tutto il suo peso istituzionale. Ma da quel febbraio ancora nulla. E tutto ciò accadeva mentre in Somalia si intensificavano i raid aerei proprio sulle basi degli al Shabaab.
E poi è arrivata la notizia della sua liberazione. Forse la più bella delle notizie di quest’anno. Una notizia inattesa, anche la madre di Silvia, Francesca Fumagalli, sentita al telefono, ha detto che “è felicissima, frastornata, non me l’aspettavo”. Ora, invece, aspettiamo Silvia in Italia dove sarà riabbracciata e potrà tornare tra i suoi amici.
(Angelo Ferrari)