Sette lunghissimi mesi. Il 20 novembre 2018 Silvia Romano è stata rapita a Chakama, 80 chilometri da Malindi, in Kenya. Di lei, da mesi, non si sa più nulla. Nessuno parla. Tacciono le autorità del Kenya, si trincerano dietro il riserbo, per non compromettere le indagini, le autorità italiane. Un silenzio, tuttavia, assordante. Non valgono più, dopo tanti mesi dal sequestro, nemmeno le congetture e le speculazioni. Nulla di nuovo. L’unica cosa che ci fa continuare a parlarne, anche in assenza di notizie, è la speranza, mai morta, che la giovane volontaria italiana possa essere presto liberata e riportata ai suoi affetti.
Del silenzio e delle speculazioni che intorno a questa triste vicenda si continuano a fare, ne abbiamo parlato con Freddie Del Curatolo, direttore del portale malindikenya.net, che vive a Malindi da trent’anni e conosce questa realtà anche nelle sue pieghe più profonde ma, soprattutto, anche lui come tanti altri italiani vive con apprensione questa triste vicenda. Del Curatolo tiene subito a dire che «le autorità italiane non hanno mollato il colpo. Le nostre istituzioni sono sempre al lavoro e sono sul campo».
Questo, sicuramente, è un motivo di speranza. Anche se inizialmente, come spiega Del Curatolo, «la collaborazione tra diversi reparti è stata problematica. Ultimamente, invece, è migliorata molto l’intesa tra le istituzioni italiane e quelle keniane».
Allo stato attuale, come ci conferma anche Del Curatolo, non ci sono novità conosciute sulle indagini, «forse di Silvia si sono perse le tracce, ma non per questo non si continua a scavare, a indagare per riportare a casa la giovane volontaria italiana». Intorno a questa vicenda, tuttavia, è calato il silenzio.
«Meglio. Anzi è giustificato, considerato il luogo. Il silenzio fa meglio delle chiacchiere che si continuano a fare sul contorno, che nulla aggiungono e che sicuramente non aiutano le indagini, che non stanno aiutando la famiglia. Chiacchere che alimentano solo speculazioni. Questo non è un bene».
Fino a metà gennaio le notizie, anche se poche, uscivano, trapelavano. «Se ne parlava. Le nostre istituzioni parlavano e il parlarne poteva essere positivo. Si diceva che Silvia fosse passata a una banda di criminali più organizzata o che fosse sulla strada della Somalia. Oggi che senso ha parlarne? Non ci sono voci nuove. Adesso c’è chi ancora scrive di cose vecchie. Passate al setaccio dalle autorità investigative subito dopo il rapimento. Perché? Non ho più letto nulla sul dopo. Magari ci fossero voci nuove. Oggi non c’è nulla di tutto questo. Mi sembra che ci si sia attaccati a notizie morbose, a una sorta di feticismo giornalistico, che non porta nulla di nuovo e di positivo alle indagini, tantomeno alla vicenda».
Il direttore del portale degli italiani in Kenya, tuttavia, tiene a ricordare che si è consumato un unicum, in questa vicenda: «Da una parte c’è il Kenya, per così dire, vicino, quello degli italiani, di Malindi, con tutte le cose che accadano qui, nel bene e nel male, dove le chiacchere e i pettegolezzi volano, dall’altra parte c’è l’Africa, che è uguale qui come in Mali o in Burkina Faso, dove la liberazione di uno straniero rapito può durare mesi, anni. E questo ci autorizza a sperare».
E poi, infine, Del Curatolo, tiene a sottolineare che tutta la «comunità italiana vive, semplicemente, una sorta di disagio nel continuare a sentire le stesse cose, quel rovistare nel contorno che non giova alle indagini, che non serve a portare a casa Silvia. Tutti, per questo, proviamo un certo fastidio ma, soprattutto un grande dispiacere».
Angelo Ferrari
(Fonte: Agi)