Nel mondo animale, la competizione per la sopravvivenza è un gioco senza fine, la cui posta è la vita o la morte. L’evoluzione ha plasmato le varie specie, adattandole ad ambienti, diete, comportamenti e riproduzione che possano garantirne al meglio la sopravvivenza. Ma la competizione più evidente nel mondo animale è sicuramente quella tra predatori e prede, un gioco mortale quotidiano, spesso apparentemente più cruento di ogni altra forma di competizione, perché termina o con l’uccisione della preda o con la morte per inedia del predatore. Ma quali sono le strategie delle prede per scampare ai continui agguati letali dei loro predatori?
di Gianni Bauce
Nonostante a molti sembri il contrario, in termini di sopravvivenza della specie la vita delle prede è molto più semplice di quella dei predatori: spesso, come nel caso degli erbivori, il cibo è sempre a portata di mano e basta abbassare il capo o distendere il collo per raggiungere il foraggio. Per i predatori, invece, il lavoro è molto più difficile e rischioso: la caccia deve eludere l’allerta delle prede, fare i conti con la loro velocità e le loro armi di difesa e spesso il tasso di successo è basso. Il dispendio di energie è elevato ed in alcuni casi particolari, come il ghepardo, un certo numero di fallimenti consecutivi può costare la vita al predatore.
Immobilità, fuga e combattimento
Ma a chi si reca in safari per osservare la fauna selvatica africana, può capitare di assistere ad una caccia e, spesso, di provare una naturale compassione ed empatia per la preda, che viene a torto considerata debole ed indifesa. Vediamo allora quali sono le armi a disposizione delle “vulnerabili” prede.
Tutti gli animali soggetti a predazione hanno messo a punto (evolutivamente parlando) una quantità straordinaria di tecniche anti-predatorie, alcune estremamente brillanti. La più elementare tattica è quella cosiddetta delle “3 F”, ovvero “Freeze, Flee and Fight” (Immobilità, fuga, combattimento).
Restare assolutamente immobili, è un’eccezionale strategia per rendersi poco visibili; molti predatori sono attratti dal movimento più che dall’immagine ed il movimento rappresenta anche per essi lo stimolo all’attacco. Se poi, come spesso accade, la preda possiede anche una livrea mimetica, capace di confondersi con l’ambiente, la combinazione di questo mimetismo con l’immobilità rende l’animale praticamente invisibile. Restare immobili in presenza di un predatore non è una disciplina semplice perché la paura può far fallire la tattica; ma l’istinto delle prede è forte ed alcuni animali sono in grado di mantenere un’assoluta immobilità per lunghissimo tempo.
Se l’immobilità fallisce, non resta che fuggire: molte prede sono ben adattate alla corsa ad elevata velocità, come le antilopi o le lepri. L’evoluzione, per esempio, ha plasmato il fisico delle antilopi, adattandole alla corsa e ciò è reso evidente da zoccoli e zampe sottili ed agili. Alla velocità, spesso si aggiunge l’agilità che permette di modificare repentinamente la direzione o procedere a zig-zag, disorientando il predatore ed impedendogli di portare a segno l’attacco finale.
Molti altri animali, come per esempio i roditori, fuggono rapidamente nei loro rifugi, sotto terra o nelle cavità degli alberi o delle rocce; altri, come molti primati e viverridi, semplicemente si rifugiano sull’alto degli alberi, dove i predatori difficilmente possono raggiungerli, ed altri ancora, come gli uccelli e molti insetti, semplicemente spiccano il volo.
Alcuni insetti hanno aggiunto alla fuga una strategia addizionale che consiste nel mostrare colori sgargianti quando scappano, per poi “spegnerli” improvvisamente quando si fermano, disorientando il predatore: alcune cavallette, per esempio, possiedono livree che si mimetizzano perfettamente con l’ambiente, ma quando spiccano il volo mostrano un colore rosso acceso all’interno delle ali, attraendo paradossalmente l’attenzione del predatore. Tuttavia, non appena atterrano e richiudono le ali, il colore rosso torna nascosto, e ciò che poco prima era stato un evidente oggetto volante colorato, scompare improvvisamente, lasciando disorientato il cacciatore.
Se anche la fuga non ha successo, alla sfortunata preda non resta che fronteggiare il predatore e combattere. Nonostante il loro aspetto vulnerabile, molte prede sono dotate di armi formidabili come corna lunghe ed affilate, zoccoli duri e taglienti, denti e zanne capaci di infliggere seri danni. E’ ovvio che la lotta tra preda e predatore risulta da subito impari e le possibilità di sopravvivenza per la preda sono ridotte, ma vi sono alcuni elementi che giocano un ruolo fondamentale nel possibile successo a favore del più debole: il primo è determinato dal fatto che la preda, a questo punto, non ha più nulla da perdere e perciò la sua determinazione diventa assoluta. Il secondo è rappresentato dal fatto che, sebbene la prestanza fisica del predatore sia quasi sempre predominante, le armi e la determinazione della preda possono infliggere serie ferite, che se anche non mortali, possono inibire la capacità di cacciare o di masticare, condannando quindi il predatore alla morte per inedia o setticemia. Di questo, i predatori sono ben consapevoli e spesso, se il rischio diviene troppo elevato, essi preferiscono desistere. Altre volte, la semplice esitazione del predatore di fronte alla reazione della sua vittima, forniscono alla preda un’ulteriore opportunità di fuga che può risultare determinante.
Corazze, armature e mimetismo
Alcuni animali hanno scelto strategie diverse, sviluppando protezioni passive, come armature fatte di gusci, scaglie, spine ed aculei. L’esempio più noto è costituito dalle tartarughe con il loro carapace ed il loro piastrone, due gusci ossei impenetrabili anche per i predatori più accaniti. Di conseguenza, le tartarughe non hanno bisogno di muoversi velocemente, risparmiandosi il dispendio energetico che la corsa implica.
Anche il pangolino è dotato di un’armatura composta da scaglie di cheratina che ne ricopre quasi tutto il corpo; quando l’animale si sente in pericolo, si arrotola su sé stesso, formando una “palla” di scaglie impenetrabile.
Altro protagonista ben noto è l‘istrice, che con la sua pungente protezione è in grado di dissuadere anche un leopardo od un leone: i peli della sua livrea infatti, si sono evoluti in spine ed aculei appuntiti (questi ultimi capaci di raggiungere il mezzo metro di lunghezza), che proteggono praticamente tutto il corpo e rappresentano un deterrente formidabile per qualsiasi predatore. I predatori che non sia lasciano convincere, spesso devono fare i conti con aculei conficcati nelle parti più sensibili del loro muso e con conseguenti pericolose infezioni.
Ma la più diffusa strategia antipredatoria è sicuramente il mimetismo. Ne esistono diverse forme, ciascuna delle quali ha l’obbiettivo di nascondere la sagoma dell’animale agli occhi di un potenziale predatore, e ciascuna di queste forme agisce in modo diverso.
Il mimetismo distruttivo è la forma più comune ed opera sulla base del fatto che il sistema visivo di un predatore (occhi e cervello) lavora su immagini di figure simmetriche – quali sono quelle di quasi tutti gli animali – e sulla memoria visiva. La figura simmetrica del corpo di un animale, come per esempio un’antilope, si sposa poco con lo sfondo irregolare dell’ambiente e pertanto risulta facilmente identificabile. Se invece, la colorazione del mantello, per mezzo di macchie, strisce o altri particolari disegni, spezza la forma e la simmetria dell’animale, la sua silouhette non risulta più così evidente ed è più difficile per un predatore individuare la preda, soprattutto se questa resta immobile. La memoria visiva, infine, registra l’immagine della sagoma di un particolare oggetto (nel nostro caso l’antilope) e una semplice striscia trasversale di colore diverso, come quella sul muso del kudu, può spezzare questa immagine e rendere difficile ad uno sguardo superficiale individuare la sagoma. Anche gli uomini utilizzano questo principio nelle tecniche di mimetizzazione in ambito militare, dove, nel passato, si usava spesso tracciare strisce nere sul volto e sulle mani (parti del corpo non coperte dagli indumenti mimetici). Queste strisce, di certo non nascondevano il viso, ma ne spezzavano la sagoma, rendendo più difficile individuarla.
Alcuni animali, invece, utilizzano la cosidetta “colorazione parziale”, costituita in genere da livree a strisce di colori contrastanti (un colore scuro ed uno chiaro): Quando l’animale si staglia contro uno sfondo chiaro, le strisce chaire si confondono con esso e quelle scure non compongono una figura riconoscibile, e viceversa quando esso si staglia contro uno sfondo scuro. L’esempio più noto di questo tipo di mimetismo è la zebra, con le sue strisce bianche e nere.
In molti anfibi, questa tecnica ha subito un’ulteriore evoluzione e le strisce si sono trasformate in macchie che tendono a rendere continue le superfici discontinue come zampe e code, confondendo la sagoma dell’animale.
Una forma di mimetismo molto originale, è invece il “bilanciamento dell’ombra”, caratteristica degli impala. Questo principio si basa sul fatto che i predatori cercano figure tridimensionali per individuare le loro prede e l’elemento principale che conferisce tridimensionalità agli oggetti è l’ombra. Per la maggior parte del giorno, il sole africano illumina il dorso degli animali rendendolo più chiaro, mente il ventre resta in ombra, quindi più scuro; così, l’evoluzione ha dotato l’impala di un mantello fulvo sul dorso, più chiaro sui fianchi e bianco sul ventre, colori che compensano l’illuminazione solare, annullando l’effetto tridimensionale dell’ombra e facendo apparire l’antilope come una figura bidimensionale.
Ovviamente, tutte queste strategie non sono né infallibili, né sufficienti a salvare sempre la vita alla preda, ma le conferiscono una possibilità di sopravvivenza in più. D’altro canto, la corsa agli armamenti non è mai unilaterale e, anche nel mondo animale, queste strategie non sono esclusivo appannaggio delle prede: anche i predatori usano il mimetismo per non farsi scorgere, come ci insegna il leopardo, col suo mantello a chiazze o il leone con il suo colore grigio/marrone che si confonde mirabilmente con quello dell’erba invernale.
Quando nascondersi non basta
Per alcune specie, nascondersi non è sufficiente e pertanto esse hanno sviluppato ulteriori strategie di difesa attiva. Certi animali possiedono ghiandole odorose capaci di secernere fluidi dal lezzo disgustoso od irritante, come la puzzola africana, la civetta africana o la donnola africana; altri addirittura tossico, come alcune specie di rane.
Per aumentare ulteriormente il potere deterrente di queste difese chimiche, la maggior parte degli animali che le utilizzano, sfoggiano una livrea colorata o comunque molto evidente. E’ il principio opposto al mimetismo, che viene denominato “colorazione aposematica”: Per l’animale in questione, infatti, è importante farsi notare e comunicare inequivocabilmente al potenziale predatore la sua tossicità.
Questi deterrenti chimici e la colorazione aposematica connessa sono talmente efficaci, che alcuni animali privi di questi sistemi olfattivi, hanno comunque sviluppato una livrea aposematica, mettendo in atto un bluff capace di ingannare un potenziale predatore. Altri, innoqui, mimano addirittura la colorazione aposematica di specie simili, ma velenose o tossiche, così da dissuadere la predazione. Quest’ultima strategia viene detta “mimetismo batesiano”. Un esempio interessante di questa mimica è costituito dai cuccioli di ghepardo e dalla loro grigia criniera eretta che li fa assomigliare lontanamente allo scontroso tasso del miele. Quest’ultimo è un animale dal carattere talmente aggressivo che anche i leoni se ne tengono prudentemente alla larga e per i piccoli ghepardi, essere scambiati per uno di questi scorbutici individui significa dissuadere un leone, una iena o un leopardo (tutti letali nemici) dall’avvicinarsi .
Infine, alcuni animali hanno sviluppato vere e proprie armi come pungiglioni, ghiandole e zanne velenifere, come scorpioni, vespe, api e serpenti.
Geniali strategie
Gli stratagemmi per difendersi dai predatori sono così numerosi e brillanti che talvolta gli animali riescono a lasciarci stupiti. La pavoncella coronata, per esempio, un uccello acquatico che nidifica in depressioni del terreno, è ben consapevole della vulnerabilità delle sue uova, che sebbene possiedano un guscio mimetico, restano esposte a predatori o animali che le calpestano accidentalmente. Ecco quindi che i genitori, all’avvicinarsi di un potenziale predatore, attuano una strategia estremamente efficace: uno dei due uccelli inizia a camminare simulando un’ala spezzata, allontanandosi dal nido e attirando l’attenzione col suo acuto richiamo. Il predatore viene immediatamente attratto dalla potenziale facile preda e di conseguenza distratto dal nido. Quando il predatore sta per raggiungere la pavoncella, questa interrompe la farsa e spicca il volo, lasciando l’avversario con un palmo di naso.
Alcuni serpenti, come il rinkal, sono in grado di simulare la morte, entrando in un vero stato di coma. La maggior parte dei predatori evita le carcasse di animali morti, pertanto, il serpente ha ottime chance di essere ignorato.
Molte lucertole possiedono code dai colori sgargianti che attraggono l’attenzione del predatore, distraendolo dalle parte più vitali come la testa. Quando il predatore afferra la coda, la lucertola è in grado di auto amputarla attraverso la contrazione di alcuni muscoli, lasciando il moncherino tra le grinfie dell’aggressore. La coda continua a muoversi per un certo tempo, dando al predatore l’impressione di aver catturato una vera preda, e alla lucertola il tempo di scappare.
Alcuni uccelli, invece, non esitano a praticare efficaci azioni coordinate di mobbing nei confronti di rapaci che si aggirano intorno ai loro nidi e nonostante la loro inferiorità fisica, spesso riescono a mettere in fuga il predatore.
Infine, una strategia interessante, anche se meno palese, è quella adottata dagli erbivori col loro periodo di gestazione, notevolmente più lungo di quello dei predatori anche se l’animale ha dimensioni inferiori. Questa prolungata gestazione, consente il parto di piccoli precoci, capaci di seguire la madre entro poche ore dalla nascita ed aumentando quindi le loro posibilità di sopravvivenza. Nel caso dei predatori, invece, una gestazione lunga ed il conseguente sviluppo maggiore del feto, ridurrebbero l’abilità di cacciare dell’animale, mentre il dare alla luce piccoli immaturi non compromette la loro sicurezza.
Insomma, anche le prede hanno il loro bel da fare per sopravvivere alle grinfie dei loro predatori e non possiamo negare che alcune delle loro strategie sono veramente straordinarie in efficacia e originalità.