Soul System: i nostri ritmi di un’Italia diversa

di AFRICA
Soul System: i nostri ritmi di un’Italia diversa

Figli di immigrati del Ghana (tranne il batterista), sono nati e cresciuti tra Brescia e Verona. Con il loro travolgente entusiasmo e i loro “ritmi meticci” hanno vinto l’edizione italiana del talent show musicale più visto al mondo

Alberto, batteria, 37 anni. A.J., tastierista, 26. Don Diggy, Ziggy per gli amici, voce rap e autore, 28. David, basso, 23. Leslie, cantante, 26. Sono i ragazzi che hanno sbancato l’ultima edizione italiana di X Factor, la trasmissione televisiva che funge da scorciatoia verso il successo. La loro band, i Soul System, è meticcia. Alberto, il batterista, è di origine italiana. Gli altri quattro, avendo i genitori ghanesi, di origine africana. Tutti e cinque però sono nati e cresciuti tra Verona e Brescia. Per la prima volta in Italia degli artisti di seconda generazione sono finiti sotto le luci dei riflettori dei media nazional-popolari. Già altri artisti G2 si erano imposti nella scena musicale: il rapper italo-tunisino Ghali, la musicista italo-eritrea Senhit e l’italo-etiope Saba Anglana… Ma nessuno di loro ha occupato le prime pagine dei giornali come i Soul System.

Un sogno completo

«I nostri genitori sono giunti in Italia all’inizio degli anni Ottanta. I primi lavoretti che hanno fatto sono stati la raccolta di pomodori o delle patate. Hanno faticato tanto, ora sono operai. Hanno potuto, in qualche maniera, regalarci un sogno completo». A parlare è Leslie Sackey, studente di Economia e Commercio. I suoi genitori sono tra i circa cinquantamila ghanesi che nel 2015 risiedevano in Italia (di questi, dodicimila abitano in Lombardia e diecimila in Veneto).

Esemplare la storia di Ziggy. È nato a Napoli e discende da una famiglia che in Ghana un tempo possedeva terreni e guidava un’intera tribù. Il padre, caduto in disgrazia, nel 1984 venne in Italia a cercare fortuna. Finì in Campania a raccogliere pomodori. Poi si trasferì vicino a Verona. Quando aveva 12 anni, il padre riportò la famiglia in Ghana, dove rimase per dodici anni. «Mi sono diplomato in ragioneria, ho comprato un taxi, ho anche fatto qualche pubblicità. Non vivevo male, ma sentivo che in Italia avrei potuto fare di più. Quindi ho preso l’aereo e sono tornato a Verona. Per prima cosa sono andato in Prefettura con tutti i miei documenti: atto di nascita, battesimo, pagelle. Mi hanno detto che dovevo tornare a casa mia perché, non essendo rientrato prima di diventare maggiorenne, avevo perso ogni diritto, ero un clandestino. Ma sono nato in Italia, la mia prima parola è stata italiana, la mia prima pappa era italiana…».

Soul System: i nostri ritmi di un’Italia diversa

«A modo nostro»

Il legame con le famiglie è fortissimo. «La nostra responsabilità era seguire il solco tracciato dai nostri genitori e riuscire a fare un passo avanti… Il loro sforzo è stato partire dall’Africa senza niente, arrivare in Italia, lavorare. Il nostro sogno era di potergli regalare qualcosa di più grande. Noi siamo contenti di essere sia italiani che africani, abbiamo entrambe le culture… Il nostro motto è We move the system, muoviamo il sistema. Lo abbiamo smosso, ma vorremmo portare questa nostra filosofia anche in altri campi, non solo quello musicale. Il nostro compito è essere bravi musicisti, ma soprattutto essere dei bravi cittadini, vorremmo essere un buon esempio per tutti, bianchi e neri. Con la nostra musica vorremmo lasciare un bel messaggio: unità, positività, felicità, ma anche ispirare tanti ragazzini di colore che pensano di non potercela fare perché nati in Italia. Non vogliamo che passi il concetto che se sei nero non puoi farcela…».

A.J., direttore artistico del gruppo (è stato lui, nel suo studio di registrazione, a far incontrare i ragazzi), diplomato in un istituto d’arte e successivamente iscritto alla facoltà di Beni culturali, racconta: «Sono nato nel 1987 ed ero l’unico nero a scuola, l’unico nel quartiere. Mi sentivo come un albino, non è stato facile. La gente mi chiede ancora “di dove sei?” e come mai parlo perfettamente l’italiano. Ma io sono nato qui, che lingua dovrei parlare? Mi diverto quando ci chiamano white niggas… Noi rispondiamo con la nostra parola d’ordine: Swagga (swag, tradotto in italiano come “bottino” o “refurtiva“, nello slang dei giovani è il degno sostituto della parola “cool”: identifica quindi una persona, un capo di abbigliamento o, in generale, un oggetto che ha “stile”, NdR). Noi siamo afroitaliani, quindi abbiamo aggiunto la “a” finale e così è diventato “Swagga”, ovvero lo stile a modo nostro».

Soul System: i nostri ritmi di un’Italia diversa

Saldatori e buttafuori

Tutti e quattro sono cresciuti nella comunità pentecostale evangelica, dove sono stati svezzati dalla musica gospel. David, studente di architettura, è figlio di un reverendo. La famiglia della madre di Leslie vanta cantanti gospel in America e lei stessa ha alternato pulizie in nero all’insegnamento di canto ai giovani della sua Chiesa. «Nella comunità evangelica dove siamo cresciuti si parla inglese. Anche in famiglia, con i nostri genitori. Non abbiamo quindi nessuna difficoltà a comporre e cantare in inglese, che poi è la lingua della nostra musica».

Musica che è un mix tra r&b, hip hop, soul e pop. «Amiamo tutta la musica afroamericana. Michael Jackson, Stevie Wonder, James Brown, tutti gli artisti dell’etichetta Motown… Il sogno è avere come ospite per un concerto Bruno Mars. Da parte nostra stiamo pensando a inserire nella nostra musica anche qualcosa di africano: un po’ di afro-beat, una spruzzata di highlife. C’è tanta bella musica in Ghana, la terra dei nostri genitori…».

I ragazzi hanno le idee chiare: «Abbiamo fatto tutti i lavori possibili, dai saldatori ai buttafuori. Uno di noi, per un certo periodo, ha perfino fatto le pulizie con la madre per una ditta privata. Poi un giorno ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di mollare tutto e dedicarci alla musica, ai Soul System. Adesso ci divertiamo e vogliamo far divertire chi ci ascolta. L’Italia non è più quella di quando sono arrivati i nostri genitori. È cambiata, è diversa. E nella diversità c’è la bellezza…».

(intervista a cura di Claudio Agostoni)

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