Igboland. Con questo nome era indicata la parte sudorientale dell’attuale Nigeria in epoca coloniale. Le donne, a quei tempi e in quel territorio, occupavano un gradino molto basso nella scala sociale, venendo considerate sostanzialmente disenfranchised, ossia prive di diritti. Per gli occupanti britannici non erano interlocutrici. Cionostante, grazie al ricorso puntuale e intelligente a uno strumento che la burocrazia coloniale riconosceva, ossia la petizione, molte tra loro riuscirono – individualmente o in gruppo – a trovare udienza presso l’amministrazione, volgendo in positivo momentanee criticità e risolvendo a proprio vantaggio numerose controversie. Bright Alozie, ricercatore al dipartimento di Storia della West Virginia University ha dedicato a questo argomento, così di nicchia ma anche tanto rivelatore, la sua tesi di dottorato e e successive ricerche, facendo emergere un’immagine della donna tipo di Igboland ben diversa dalla creatura inerme e in balia di un doppio patriarcato, coloniale e autoctono, che troppo spesso si tende a immaginare. I documenti raccolti da Alozie raccontano infatti un’altra storia.
«Una serie di petizioni e la corrispondenza intercorsa tra le donne Igbo e i funzionari britannici tra il 1892 (quando iniziò effettivamente il controllo britannico sulla Nigeria) e il 1960 gettano una nuova luce sul modo in cui le donne riuscivano a destreggiarsi nelle istituzioni e nelle strutture coloniali, che erano dominate dagli uomini», scrive il nostro storico in una sintesi pubblicata su The Conversation e di cui vi proponiamo alcuni estratti con la sua autorizzazione.
«A Igboland Le donne hanno dimostrato di sapere agire in modi vari e complessi, a seconda delle circostanze, spaziando tra opposizione sottile, opposizione palese e talvolta resistenza violenta. Le petizioni hanno rappresentato uno strumento ricorrente in questa resistenza femminile. (…) Il contesto politico del tempo non prevedeva che le donne fossero incorporate nell’amministrazione coloniale. Le petizioni erano forse il solo mezzo attraverso cui potevano provare a influenzare, resistere, negoziare e contrastare politiche decise altrove ma che le riguardavano. (…) A Igboland, le donne si avvicinavano regolarmente ai funzionari britannici con richieste personali e reclami. Il fulcro delle richieste era su questioni socio-politiche ed economiche come tassazione, politica, politiche, controllo dei prezzi, costo della vita, questioni familiari, rappresentanza, matrimoni e così via».
Alozie ha riunito le petizioni in una raccolta ribattezzata “voices on ink”, Voci su inchiostro. Eccone alcune.
1. Il 12 settembre 1928, le donne Igbo guidate da Madam Chinwe scrivono al Luogotenente Governatore delle Province Meridionali riguardo alle frustrazioni indotte dall’economia coloniale: «In considerazione del fatto che le donne Aba attualmente soffrono di notevoli difficoltà per l’elevato costo dei prodotti di base, potreste considerare di fissare i prezzi dei prodotti alimentari a determinati tassi fissi?».
2. Il 16 novembre 1937, Mary Nna di Ohambele presenta una petizione al Senior Resident, nella provincia di Owerri, facendo riferimento a una sentenza, a suo avviso ingiusta, emanata dalla corte nativa del gruppo di Ikwueke nei suoi confronti: «Dichiaro rispettosamente che l’annullamento della sentenza della Native Court da parte del Reviewing Officer è illegittimo … Le prove dell’imputato sono un tessuto di menzogne e l’imputato ha impostato la difesa come un ripensamento al fine di frustrare il corso della giustizia, ridicolizzare e disprezzare la giustizia britannica e il fair play».
3. Il 7 settembre 1940, Maria Olumo presenta una petizione per chiedere di essere aiutata a ripristinare la sua proprietà di un pezzo di terra che presumeva i capi di Umuezi le avessero sottratto trasferendolo illegalmente a una società europea, la United Africa Company.
Le petizioni erano dunque una via per aggirare la distanza sociale che separava i soggetti ordinari dall’élite dominante. Come e perché ha deciso di utilizzarle come base per la ricerca? «Trovo in generale molto interessante documentare la storia dal basso. Credo che il modo migliore per capire una società sia studiarne la base. Quindi, la mia ricerca è stata modellata da questo approccio metodologico. Ho lanciato una sfida a me stesso. Volevo vedere cosa ero in grado di “estrarre” sul piano politico e sociale da uno studio di rimostranze, suppliche e richieste avanzate nelle petizioni. Si tratta di un campo presente nella storia africana ma poco studiato. Ho raccolto centinaia di petizioni, in diversi archivi nel Regno Unito, Nigeria e Ghana e le ho usate seguendo essenzialmente tre input: 1) capire come persone prive di un potere politico ufficiale potessero comunque spingere le autorità in una qualche direzione; 2) estrarre informazioni sulla vita coloniale quotidiana e sui cambiamenti sociali;3) registrare le voci di soggetti ordinari ».
La gamma di petizioni però è molto ampia. Perché proprio le donne di Igboland e non un altro tema? «È un dato di fatto che le donne, e in particolare quelle “normali”,sono rimaste in gran parte sottorappresentate nella storiografia coloniale. Mi piaceva l’idea di rendere finalmente acoltabili le voci di donne africane non d’élite in una società dominata dagli uomini. La scrittura di petizioni si è rivelato per loro uno strumento sottile ma potente, in un sistema rigidamente gerarchico. Le petizioni fotografavano anche le realtà socioeconomiche dell’economia coloniale e le sfide che questa poneva alle donne nella loro quotidianità. Studiando le petizioni delle donne Igbo, è stato possibile osservare la politica coloniale africana da una prospettiva di genere e mettere in discussione i presupposti generali che posizionavano le donne come impotenti. Il potere che le petizioni hanno dato alle donne merita davvero di essere menzionato».
Ha incontrato ostacoli nella sua ricerca?
«Certamente. Ostacoli di natura finanziaria: non è stato facile trovare i finanziamenti e sono molto grato alla mia università per avermi supportato; difficoltà legate allo stato dei documenti: in particolare quelli conservati presso gli archivi nazionali nigeriani nello stato di Enugu, in Nigeria, erano spesso danneggiati e strappati e alcune petizioni hanno presentato un problema con la datazione.
In terzo luogo, la lettura di centinaia di petizioni scritte a mano comportava un grado discreto ma arduo di paleografia, poiché molte scritture erano illeggibili o stilisticamente complesse, essendo queste ultime opera di paraprofessionisti e scrittori di petizioni professionisti orgogliosi della scrittura artistica».
Ma in Nigeria questa storia è conosciuta?
«Il campo delle petizioni è relativamente nuovo, anche a livello accademico. Molte persone con cui ho interagito hanno espresso sorpresa nel sapere che le donne Igbo hanno scritto petizioni durante il periodo coloniale. In realtà nell’intera Africa lo studio delle petizioni coloniali è ancora in una fase iniziale ed è senza dubbio un campo di ricerca che merita di essere affrontato e dal quale potranno emergere molte informaizoni sorprendenti».
Perché è importante conoscere queste vicende storiche, così come ricordare i nomi delle protagoniste femminili, oggi?
«Studiare questi eventi storici serve a cambiare ed allargare il nostro sguardo: rivela molto su come le donne abbiano effettivamente vissuto le sfide e le opportunità del periodo coloniale e sui modi vari e complessi in cui potevano effettivamente agire in un ambiente in cui la loro identità e il loro posizionamento sociale erano messi in discussione da istituzioni e strutture coloniali dominate dagli uomini.
Le donne inoltre sono generalmente sottorappresentate nella storia. Studiando le loro petizioni e portando alla luce i loro nomi, nel nostro piccolo, ci opponiamo a questa sottorappresentazione. Dimostriamo che non erano impotenti, anonime e senza voce».
(Stefania Ragusa)