In Sud Sudan, a luglio, i caschi blu non hanno protetto i civili né gli operatori umanitari. La denuncia, molto forte e circostanziata, arriva da Civic, una organizzazione non governativa statunitense. Secondo i responsabili dell’organizzazione, i militari in forza alle Nazioni unite sarebbero stati rintanati nelle loro basi e si sarebbero rifiutati di intervenire quando volontari stranieri sono stati attaccati da gang locali. Non solo, ma le forze di pace avrebbero abbandonato i campi in cui avevano cercato protezione i civili, senza difenderli.
Dal 2013, il Sud Sudan, la più giovane nazione africana, è sconvolta da una guerra civile che vede opposti il Presidente Salva Kiir e le sue milizie dinka al Vicepresidente Riek Machar e i suoi sodali nuer. Nell’agosto 2015 era stato siglato un accordo di pace. Ma la tregua non ha retto e questa estate sono scoppiati nuovi scontri.
Proprio in occasione di questi scontri, i civili non sarebbero stati protetti. Ma, secondo Civic, anche in febbraio, quando le forze di pace erano composte da militari provenienti da Etiopia, India e Ruanda, almeno 30 civili sono stati uccisi dalle forze governative fedeli a Salva Kiir senza che i caschi blu si opponessero.
Allora l’Onu aveva ammesso «l’inazione, l’abbandono del posto e il rifiuto di impegnarsi» dei peacekeepers, ma non è riuscita a inchiodare alle loro responsabilità né i comandanti né i soldati. E anche oggi, gli stessi funzionari Onu, sentiti dal sito www.theeastafrican.co.ke, hanno dato ragione a Civic affermando che la denuncia dell’Ong «solleva una serie di questioni importanti». A breve, hanno poi annunciato, che il Palazzo di Vetro pubblicherà un’indagine indipendente sulle violenze di febbraio e di luglio.
I funzionari Onu hanno però concluso che «l’investimento che abbiamo urgente bisogno di fare è dare priorità al Sud Sudan e cercare di riprendere la trama del processo di pace».