Non c’è pace per il Sud Sudan. Lo Stato più giovane del mondo (è nato nel 2011) è ripiombato nel vortice della guerra civile. Nonostante due accordi di pace, l’esercito del Presidente Salva Kiir e le milizie del Vicepresidente Riek Machar da alcuni giorni hanno ripreso a combattersi. Il Governo ha lanciato un’offensiva «su vasta scala» nello Stato di Unity, i ribelli hanno invece attaccato i giacimenti petroliferi nell’Upper Nile.
Gli scontri hanno causato decine di morti e hanno costretto centinaia di migliaia di civili ad abbandonare le proprie case. Gli operatori umanitari hanno lanciato l’allarme: i combattimenti hanno tagliato fuori dagli aiuti molti profughi, gli ospedali e i piccoli ambulatori sono stati distrutti, i villaggi sono stati rasi al suolo, soldati e miliziani stanno commettendo atrocità.
«La ripresa del conflitto – ha dichiarato Michelle Kagari, Vicedirettore di Amnesty International – è una chiara indicazione che i leader del Sud Sudan hanno poco interesse a una cessazione delle ostilità e che la comunità internazionale è riluttante ad adottare misure coraggiose per evitare le atrocità».
Alla base del conflitto c’è una lotta di potere tra l’etnia maggioritaria dinka (alla quale appartiene il Presidente) e quella nuer (della quale fa parte il suo Vice). Il Sud Sudan è uno Stato potenzialmente ricchissimo: è uno dei maggiori produttori di petrolio dell’Africa subsahariana, ma possiede anche notevoli risorse idriche, essendo attraversato dal Nilo. Proprio la gestione di queste ricchezze ha scatenato la lotta interna. E a rimetterci è soprattutto la popolazione civile.