Sud Sudan, un compleanno amaro

di Marco Trovato

Oggi il Sud Sudan celebra i suoi primi dieci anni di vita. Ma c’è poco da festeggiare in un Paese precipitato nella guerra civile nel dicembre 2013, due anni dopo la sua indipendenza dal Sudan. Il conflitto, innescatosi per una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir, esponente dell’etnia dinka, e il suo vice Riek Machar, dell’etnia nuer, leader della ribellione, ha provocato un’escalation di violenze interetniche, scontri tra le comunità e atrocità nei confronti della popolazione civile costate 400.000 morti.

L’accordo di pace raggiunto nel settembre 2018 tra governo e gruppi ribelli – che prevede una spartizione dei posti di comando nella politica e nelle forze armate – ha portato a un repentino calo delle ostilità tra esercito regolare e fazioni armate, specie nei dintorni della capitale Juba; ma nelle regioni periferiche la situazione resta altamente instabile, quattro milioni di abitanti sono stati costretti a lasciare le proprie case e il 60% della popolazione soffre ancora di insicurezza alimentare. Decisamente un compleanno amaro.

Gli aerei del Programma alimentare mondiale sorvolano i villaggi rimasti isolati dalla guerra per distribuire aiuti dal cielo. Centinaia di civili, affamati e sfiancati da mesi di combattimenti e isolamento, si sbracciano per intercettare gli aiuti. Ma il sollievo dura poco: fino a quando non si ode il rumore sinistro degli elicotteri militari in pattugliamento. All’improvviso tutti fuggono alla ricerca di un nascondiglio. Sulle capanne di paglia possono piombare sventagliate di proiettili. «La vita della gente del Sud Sudan è appesa ad un filo», commenta amaro Daniele Moschetti, comboniano, sette anni di missione nel martoriato Paese africano, autore del libro Sud Sudan. Il lungo e sofferto cammino verso pace, giustizia e dignità (Dissensi Edizioni 2017, pagg. 250, 14 euro). «L’ho scritto per rilanciare il grido di dolore di un popolo che non ha voce».

Un bambino sud-sudanese seduto su un formicaio che guarda l’orizzonte nel campo profughi di Yida  courtesy Marco Gualazzini

«Oggi – spiega padre Daniele – nel cuore dell’Africa è in corso un disastro umanitario di proporzioni paurose. Una guerra che ha fatto trecentomila morti e due milioni di profughi. Bisogna riaccendere i riflettori su questa crisi dimenticata». Ma i diplomatici europei sono scappati da Juba, come pure i giornalisti che fino a pochi anni fa raccontavano e celebravano la favola della nazione più giovane del mondo. Il “Paese della speranza” – nato nel luglio del 2011, dopo oltre cinquant’anni di sanguinoso conflitto e un referendum che aveva sancito la secessione dal Sudan – è diventato un posto infernale. «Siamo testimoni di atrocità terrificanti: migliaia di donne stuprate, bambini castrati o bruciati vivi nelle capanne», racconta con voce scossa padre Moschetti, che certo non è un tipo facile da impressionare: prima di trasferirsi per sei anni in Sud Sudan ha passato undici anni in Kenya, affiancando padre Alex Zanotelli e poi subentrandogli nella baraccopoli a Korogocho.

Le violenze sono iniziate ventiquattro mesi dopo la dichiarazione di indipendenza. Troppo fragili le istituzioni che avrebbero dovuto costruire da zero il nuovo Paese, inadeguata e divisa la classe dirigente designata a governare il periodo postbellico. La situazione precipita nell’estate del 2013, quando il presidente Salva Kiir destituisce il suo vice Riek Machar, accusandolo di aver complottato contro di lui. Le truppe fedeli ai rispettivi leader politici si scontrano in un conflitto dal sapore tribale che ben presto si trasforma in guerra civile.

Mutilati in Sud Sudan. Le vittime di ferite permanenti a causa della guerra civile sono decine di migliaia Camille Lepage/Afp

Nel gennaio 2015, dopo settimane di negoziati, governativi e ribelli firmano un cessate il fuoco. Ma l’accordo non regge. Nel luglio 2016, una nuova ondata di violenze scoppia a Juba, la capitale, e nelle regioni periferiche, provocando la fuga di decine di migliaia di sfollati. La siccità aggrava la crisi umanitaria, i morti si contano a centinaia.

Nel 2017 sei gruppi di opposizione del Sud Sudan si coalizzano e denunciano il Governo di Juba che, a loro avviso, si rende responsabile di un genocidio. In una dichiarazione congiunta, i sei gruppi di opposizione sostengono che il regime del Presidente Salva Kiir, con la partecipazione diretta dell’esercito Spla e sponsorizzato dalle milizie di Mathyiang Anyor, sta compiendo crimini di guerra: esecuzioni mirate e a sangue freddo, torture e violenze sessuali.

Si combatte dappertutto. I crimini contro i civili li compiono sia le milizie ribelli che i soldati regolari, in una spirale di violenze e vendette incrociate che spinge il Paese verso il baratro. Solo la presenza dei caschi blu dell’Onu evita il peggio. Ma ogni giorno pervengono notizie di nuove stragi. «A portare soccorso e conforto alle popolazioni, oltre agli operatori sanitari presenti nei campi profughi, sono rimasti solo i sacerdoti e le religiose che animano parrocchie e missioni in una situazione di insicurezza sempre più preoccupante». Circa metà della popolazione è cristiana: soprattutto cattolici e protestanti (la parte restante professa i culti tradizionali).

Nei pressi di Rumbek un sacerdote cattolico celebra la messa in ciò che reta di una chiesa devastata dalle violenze (courtesy Bruno Zanzottera)

Nel settembre del 2018 viene raggiunto un accordo di pace tra forze governative e gruppi ribelli, che tuttavia incontra ostacoli e rallentamenti a causa di veti incrociati e diversi tentativi di sabotaggio che rischiano di fare naufragare l’intesa. Nell’aprile del 2019 Papa Francesco – che più volte ha espresso il desiderio di visitare il Sud Sudan e che invita spesso nelle sue omelie a pregare per il martoriato Paese africano – incontra a Roma i due leader in lotta, Riek Machar e Salva Kiir: il Santo Padre implora la pace, si inginocchia e bacia loro i piedi: un gesto potente che fa il giro del mondo. I colloqui riprendono anche grazie alla mediazione della comunità di Sant’Egidio.

Nell’ottobre del 2019, la svolta apparente: Riek Machar torna dall’esilio a Juba, per cercare di rilanciare, o meglio di salvare, il fragile accordo di pace mentre si avvicina la scadenza di metà novembre fissata per la formazione di un governo di unità nazionale con il presidente Salva Kiir. I due uomini politici si incontrano e si stringono nuovamente la mano davanti ai riflettori.

Ma la tregua armata serve solo a cristallizzare il conflitto. «Stabilità e sicurezza sono appese ad un filo, ci sono in giro ancora tante armi e sete di vendetta – spiega padre Daniele –. Ogni famiglia ha avuto i suoi morti, la popolazione è costretta a fuggire o a dipendere dagli aiuti umanitari». Le responsabilità? «Anzitutto dei leader politici, rimasti anzitutto dei capi militari, che si sono dimostrati incapaci di operare per il bene comune».

Pastori dinka si prendono cura del bestiame in un accampamento nei pressi di Mingkaman, Lakes State (Stefanie Glinski/Afp). La lotta per il controllo dei pascoli e delle terre alimenta le tensione tra i popoli che compongono il mosaico sud-sudanese

La pacificazione tarda ad arrivare. In Sud Sudan ci sono più Kalashnikov che vacche e capre (in un paese a abitato da etnie a forte vocazione pastorale). A farne le spese sono anche operatori umanitari e uomini di chiesa. Il 26 aprile scorso, Padre Christian Carlassare, missionario italiano e vescovo eletto della diocesi di Rumbek, in Sud Sudan, viene ferito da due uomini armati. “Volevano intimidirmi”, dirà dal letto di ospedale. “Ma non ci sono riusciti”. Un mese fa, il 9 giugno, due operatori umanitari che lavoravano per Medici con l’Africa (Cuamm), in Sud Sudan, vengono uccisi in un’imboscata al loro veicolo a Yirol West. 

Ogni giorno pervengono notizie di scontri armati e agguati da varie parti del Paese. Il bilancio di sei anni di sanguinoso conflitto è impietoso: per un Paese di 12 milioni di abitanti, i morti si avvicinano ai 400.000; i rifugiati (molti nella vicina Uganda) sono 2 milioni e mezzo, gli sfollati interni, 2 milioni. Dipendono dagli aiuti alimentari 6,5 milioni di sud-sudanesi. E sono oltre stimate in oltre 700.000 le armi leggere in mano ai civili. Le lotte per il potere hanno sfibrato l’identità nazionale e fatto saltare i fragili equilibri di un territorio vasto e privo di infrastrutture, popolato da 64 etnie e destabilizzato da interferenze straniere. Chiosa Padre Moschetti: «In gioco ci sono le enormi ricchezze strategiche del Sud Sudan: acqua, terreni fertili, petrolio e chissà quanti metalli strategici». Oggi a Juba si terranno festeggiamenti e parate. Ma non c’è gioia nel celebrare una speranza recisa.

(Marco Trovato)

Nella foto di apertura (courtesy Marco Gualazzini), bambini giocano al tramonto sotto la carcassa di un Antonov nel campo profughi di Yida, al confine tra il Sudan e il Sud Sudan.

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