Sudafrica, la profezia di Mandela

di claudia
mandela

di Jean-Léonard Touadi

«Non siamo ancora liberi; abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi. Con la libertà viene la responsabilità». Così parlava “Madiba” trent’anni fa. I nodi in Sudafrica oggi vengono al pettine. Ma nessuno dica «era meglio prima»

È successo esattamente trent’anni fa in Sudafrica: file interminabili fuori dai seggi elettorali per il primo voto multirazziale e l’avvento della democrazia senza segregazione. Le elezioni furono vinte da Nelson Mandela e dal suo partito, l’Anc, l’African National Congress, tuttora al potere.
Quel 10 maggio 1994 è stato considerato da giornalisti e dagli storici come il compimento ideale dei processi d’indipendenza iniziati a metà anni Cinquanta. Sia l’adesione dei movimenti di liberazione africani al Movimento dei non allineati a Bandung (1955) sia la nascita dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) nel 1963 ponevano la liberazione totale del continente come pilastro ideologico e operativo del panafricanismo. Molti decenni dopo le prime ondate delle indipendenze il principio dell’autodeterminazione dei popoli non si era ancora realizzato in molte nazioni. In Sudafrica e in Rhodesia del Sud, regimi segregazionisti avevano aggiunto, al già pesante fardello della colonizzazione, l’iniquo sistema dell’apartheid. L’Oua divisa nel suo seno tra progressisti e capitalisti, lacerata dalle dinamiche della Guerra fredda, era tuttavia compatta nella lotta all’apartheid, ultimo retaggio della schiavitù e della colonizzazione. Venivano messi in campo tutti gli sforzi politici, diplomatici militari ed economici per aiutare la lotta di liberazione nei Paesi sotto il dominio coloniale portoghese prima del 1975 e dell’apartheid in Sudafrica e in Rhodesia, ora Zimbabwe, tra gli anni Ottanta e Novanta.

Nuovo panafricanismo
Con la sua liberazione dopo 27 anni di carcere e la sua elezione a capo dello Stato, Mandela è entrato nel pantheon dei padri fondatori dell’Africa libera, insieme a Nkrumah, Lumumba, Kenyatta, Nyerere e altri. Mandela prese sul serio questa missione e s’impose subito come una figura di riferimento per il rinvigorito panafricanismo del nuovo millennio. Con lui e con il suo successore Thabo Mbeki la parola d’ordine della African Renaissance trovava nuova linfa e si concretizzava in nuovi piani, anche economici e infrastrutturali, in grado di proiettare il continente nel nuovo millennio, che – diceva Mandela – «sarà africano o non sarà».
Nel suo primo discorso alle Nazioni Unite Mandela rafforzava il convincimento in questi termini: «Facciamo parte della regione dell’Africa australe e del continente africano. In quanto membri della Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe e dell’Oua, e partner alla pari con gli altri Stati membri, svolgeremo il nostro ruolo nelle lotte di queste organizzazioni per costruire un continente e una regione che contribuiscano a creare per loro stessi e per tutta l’umanità un mondo comune di pace e prosperità». Per Mandela, «da un drammatico disastro umano che è durato troppo tempo deve nascere una società che sarà la fierezza dell’umanità […]. Il tempo di curare le ferite è arrivato. Il tempo di riempire i fossati che ci separano è arrivato. Il tempo di costruire è arrivato».

Il tempo della disillusione
Tre decenni dopo, il sogno di una Nazione Arcobaleno si scontra con la realtà, in una società ancora molto segnata dalle disuguaglianze. Dopo la fine dell’apartheid, il Sudafrica resta il Paese più disuguale del mondo, secondo la Banca mondiale, con oltre metà della popolazione sotto la soglia della povertà.
Alle difficoltà sociali ed economiche si è aggiunta la frustrazione legata alla corruzione dilagante della classe politica e imprenditoriale, culminata negli anni della presidenza di Jacob Zuma (2009-2018) con il fenomeno descritto da molti come «confisca dello Stato» da parte di una dirigenza famelica e sprecona.

Jacob Zuma

Negli ultimi due anni sono emerse le conseguenze di tutto questo, compreso il fallimento della compagnia elettrica statale Eskom. Nel 2023, i sudafricani hanno subito 335 giorni di interruzioni di corrente, fino a 12 ore al giorno: un disastro per le imprese, che hanno dovuto investire in generatori o pannelli solari, e un duro colpo per l’economia. Poi anche i tagli alla distribuzione dell’acqua, in particolare a Johannesburg, benché le dighe fossero piene.
Romain Chanson, corrispondente di Le Monde da Johannesburg, annota che, a lungo associato alla lotta al regime di apartheid, l’Anc sta beneficiando sempre meno di questo dividendo memoriale. Più della metà della popolazione non ha vissuto l’apartheid e nel 1994 non ha votato. L’altra metà, i veterani che fecero la fila ai seggi nel 1994, ricordano il 27 aprile come una speranza infranta.
«Mi fa male quando la gente dice che le cose andavano meglio prima», ha detto la popolare cantante Yvonne Chaka Chaka, 59 anni. Non era meglio allora. A chi è nato dopo il 1994 dico: «Non avresti potuto essere qui, qualcuno ti avrebbe chiesto di andartene dopo cinque minuti».

Il presidente Ramaphosa ha ricordato il percorso del Sudafrica verso la libertà. «Per più di tre secoli, la dignità delle persone di colore che vivono in questa terra è stata deliberatamente e crudelmente negata, prima dal colonialismo e poi dall’apartheid […]. L’apartheid era un’ideologia e un sistema progettato per controllare ogni aspetto della vita delle persone. Era un regime che cercava di umiliare e avvilire».
«Ma la narrazione nazionale della liberazione», conclude Chanson, «non ha più lo stesso effetto sugli elettori. “Ogni volta che sento parlare del Giorno della Libertà, mi chiedo: cos’è la libertà?”, si domanda Jennifer Heuvel, 78 anni, seduta in poltrona nella sua maisonette nella residenza per anziani Eeufees Oord, nel quartiere Sophiatown di Johannesburg. “Non siamo liberi! Non siamo al sicuro, non possiamo muoverci liberamente. Quale libertà per i poveri? Vivono nelle stesse condizioni, non hanno lavoro, non hanno cibo, non hanno un alloggio, non hanno nulla”».

Il presidente Cyril Ramaphosa

La disillusione dei sudafricani rispetto alle promesse di libertà e di prosperità non è un fenomeno isolato, nel continente. Processi di democratizzazione in crisi; fragilità degli Stati che non riescono più a controllare interi pezzi di territori e ad erogare servizi essenziali alle popolazioni; bande criminali organizzati intorno all’estrazione dei minerali; incapacità di inventare modelli economici afrocentrici che facciano leva sulle capacità di innovazione e di creatività dei giovani e delle donne.

L’Africa è al bivio proprio quando tutti gli indicatori sembrano indicare che è giunto il suo momento. Dobbiamo tutti ricordare le parole di Mandela alla fine del suo libro Lungo cammino verso la libertà: «Da quando sono uscito dal carcere, è stata la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori. Alcuni dicono che il mio obiettivo è stato raggiunto, ma so che non è vero. La verità è che non siamo ancora liberi; abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi. Con la libertà viene la responsabilità». E per esercitare questa responsabilità non basta gridare da mattina a sera contro l’Occidente cattivo. Bisogna che gli africani per primi amino i popoli africani e costruiscano una politica e un’economia a misura dei bisogni dei loro popoli.

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