Sudan, crescono i bisogni ma la risposta umanitaria latita

di claudia

di Tommaso Meo

Nel baratro sudanese è sempre più difficile operare anche per le organizzazioni internazionali, come testimonia la recente decisione di Medici Senza Frontiere (Msf) di sospendere il proprio supporto al Turkish Hospital di Khartoum, a causa dei continui attacchi e minacce contro il personale medico. I bisogni della popolazione, nella capitale come altrove, non accennano invece a diminuire, mentre il conflitto tra esercito e paramilitari si appresta a entrare nel suo quindicesimo mese.

Prima dell’inizio della guerra, nell’aprile 2023, c’erano decine di organizzazioni internazionali, oggi invece ne sono restate pochissime. Per questo Msf, insieme ad Emergency, chiede che la comunità internazionale intensifichi immediatamente la risposta umanitaria in Sudan e nei paesi limitrofi e che garantisca alle Ong la possibilità di fornire aiuti in sicurezza su tutto il territorio. Con quasi 10 milioni di sfollati interni e 2 milioni di rifugiati, su una popolazione di 47 milioni, il Paese è a rischio carestia, senza un intervento urgente. L’appello delle due organizzazioni umanitarie è stato lanciato nel corso di una conferenza stampa indetta l’11 luglio a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio per riaccendere i riflettori su una catastrofe dimenticata da molti in Occidente.

Chi se ne interessa, come Msf, Emergency e Sant’Egidio, deve affrontare sfide sempre più complesse. “I blocchi spesso imposti dalle stesse parti in conflitto ostacolano l’ingresso di forniture mediche e di personale umanitario, essenziali per lo svolgimento delle attività” spiega Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi di Msf in Sudan. “Portare rifornimenti in particolare a Khartoum è visto come un possibile supporto alle attività militari delle Forze di Supporto Rapido (Rsf) da parte dell’esercito” conferma Pietro Parrino, direttore del Dipartimento progetti di Emergency. “Per questo il movimento di materiale da Port Sudan è complicato e lungo: richiede trattative con le autorità, che non sempre vanno a buon fine. Abbiamo container e persone fermi lì da un mese e mezzo”. E quando c’è il via libera, il viaggio non è per nulla sicuro, dovendo attraversare zone controllate dagli opposti schieramenti e aree desertiche in cui comandano i predoni.

La capitale, in mano alle Rsf, è una città fantasma, raccontano gli operatori umanitari, da qui proviene il 36% degli sfollati interni. Il sistema sanitario è al collasso, le infrastrutture distrutte e manca l’elettricità, necessaria anche solo per pompare acqua pulita. Al momento in città rimane Emergency, per fornire assistenza e offrire sostegno alle quasi 11.000 persone operate nel corso di un anno che hanno bisogno di medicine trattamenti. Oltre alle bombe, a preoccupare le organizzazioni internazionali al momento è la malnutrizione che minaccia la popolazione in gran parte dello Stato. Oltre 25 milioni di persone sono colpite da un’insicurezza alimentare estrema e hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere. “In alcune aree del Darfur la malnutrizione ha raggiunto livelli allarmanti e a questa emergenza stiamo rispondendo ampliando la capacità dei centri nutrizionali in diverse strutture sanitarie”, racconta ancora Oppizzi di Msf. “Quello che facciamo rimane però una goccia in un oceano se non c’è aumento della risposta umanitaria”.

rifugiati

Altre conseguenze della guerra non si potranno apprezzare nell’immediato, ma saranno altrettanto disastrose. “Abbiamo una generazione di bambini e adolescenti da più di un anno al di fuori di ogni tipo di scuola – racconta padre Angelo Giorgetti, economo generale dei missionari Comboniani – e questo avrà un impatto sul futuro della popolazione”. Anche i missionari, che hanno quattro comunità nel Paese, hanno dovuto sospendere la della propria formazione, trasferendo a Port Sudan solo i corsi sanitari. La perdita di professionalità allarma peraltro Emergency: “Tantissimi medici che abbiamo formato sono fuggiti a lavorare all’estero” spiega Parrino. “Per avere nuovi professionisti locali nel settore ci vorranno decine di anni”, tanti quanti quelli necessari a ricostruire il Paese dalla macerie. I meno fortunati, invece, tentano di attraversare il Mediterraneo, come dimostra l’aumento del numero di sudanesi recuperati dalle navi delle Ong negli ultimi mesi.

Per evitare che la catastrofe umanitaria continui bisogna fermare subito il conflitto, hanno gridato a gran voce Ong, Comunità di Sant’Egidio e missionari convenuti a Roma. “Siamo qui per rilanciare i colloqui di pace in Sudan e per chiedere al governo italiano, visto il nuovo interesse per l’Africa, con il Piano Mattei, di promuovere la ripresa negoziati per il cessate il fuoco immediato nel Paese”, afferma Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio che opera in Sudan, a El Obeid, e sostiene gli sfollati nei paesi vicini. “Durante il G7 presieduto dall’Italia si è parlato di Sudan ma la situazione non è cambiata affatto”. Ora è il momento per la comunità internazionale di agire.

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