Militari al governo, civili relegati a un ruolo marginale, economia sull’orlo del default. Il Sudan sta vivendo una profonda crisi politica e sociale. A fare i conti con questa situazione è l’intero Paese, ma anche il Corno d’Africa, una regione che da anni vive una forte instabilità.
Di Enrico Casale
«Tra Egitto e Sudan ci sono molte similitudini – spiega Bruna Sironi, cooperante ed esperta delle dinamiche del Corno d’Africa -. Quando a reggere le sorti del Sudan c’era Omar al-Bashir, il regime di Khartoum si ispirava all’Islam politico predicato dai Fratelli musulmani, movimento che, allora come oggi, in Egitto è fuorilegge. Tra Il Cairo e Khartoum non correva quindi buon sangue. Con la caduta di al-Bashir, questo legame con i Fratelli Musulmani è venuto meno. Il Sudan ha iniziato a guardare con maggior favore al rapporto con Il Cairo e con i Paesi del Golfo e, in particolare, con l’Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tra i militari egiziani e quelli sudanesi ci sono una serie di interessi comuni e anche una comune visione della gestione del potere».
L’importanza «economica» delle forze armate è dimostrata dal controllo che i militari hanno dell’industria locale degli armamenti. Il Sudan è il terzo produttore africano di armi dopo Sudafrica ed Egitto. Realizzano sistemi d’arma su licenza russa, cinese, turca, iraniana. «La produzione di armi è completamente in mano alle forze armate – continua la Sironi -. Ma la loro influenza tocca anche molti altri settori vitali per l’economia del Paese ed è questo uno dei motivi per cui sarà difficile che lascino a breve il potere e ritornino nelle caserme. Questi interessi economici danno loro un’autonomia di manovra che nessuno ha in Sudan, oltre a loro, e si trasformano anche in interessi politici, personali e familiari di una certa rilevanza».
In questi ultimi anni, in Sudan ha assunto un ruolo sempre maggiore la società civile. La caduta di Omar al-Bashir ha portato alla ribalta una fitta rete di organizzazioni che si sono proposte con alter ego della casta militare. «Dal mio punto di vista la società civile sudanese è meno forte e strutturata rispetto a quella di altri Paesi africani e dello stesso Corno d’Africa – osserva Bruna Sironi -. Solo negli ultimi anni la società civile ha iniziato a muoversi e a organizzarsi meglio. Oppositori della vecchia guardia mi dicevano però che se in Sudan ci sarà una rivoluzione questa non sarà fatta dalle organizzazioni tradizionali, ma dalle reti che stanno nascendo grazie all’impegno di migliaia di donne e giovani. Su questa tesi concordano analisti di al-Jazeera e di centri studi specializzati. E anch’io credo sia vero, anche se mi sembra che questi movimenti siano ancora un po’ immaturi».
La determinazione della società civile è emersa dopo il golpe di novembre quando i militari hanno prima deposto il premier Abdalla Hamdok e poi lo hanno rimesso al suo posto. La società civile ha preso le distanze dai militari e ha condannato il reinsediamento del primo ministro. «Quando parlavo di immaturità mi riferivo anche a questo episodio – continua -. Forse sono stati troppo affrettati. Avrebbero dovuto valutare meglio la situazione. Io ho sentito molti oppositori storici che mi hanno detto che forse quell’intesa era l’unica possibile per il rilanciare il processo di transizione nel Paese».
La crisi sudanese ha assunto progressivamente anche una dimensione internazionale. Gli Stati Uniti sono intervenuti spingendo per una mediazione tra civili e militari. Washington sta mettendo sul tavolo il peso degli accordi economici che hanno siglato con Hamdock e hanno annunciato che non daranno più fondi se non si avvierà un’autentica transizione verso un governo civile. «Credo che la spinta statunitense possa essere molto forte e possa incidere realmente sulla politica sudanese perché il Paese è sull’orlo del default – osserva Bruna Sironi -. La crisi economica che ha portato alla caduta di Omar al-Bashir non è stata superata. I fondamentali dell’economia sono ancora in rosso». Anche l’Unione europea ha fatto molte pressioni per favorire la transizione verso un assetto democratico. «Il ruolo dell’Ue – è l’opinione di Bruna Sironi – ha però meno forza. Mi sembra più defilata e meno unita. Un grande ruolo negli equilibri sudanesi può invece averlo l’Egitto che però non gioca a favore di una transizione, ma di un maggiore ruolo dei militari. D’altra parte, al Cairo governano i militari e certamente non vedono bene una esperienza democratica in Sudan perché potrebbe influenzare anche gli equilibri egiziani».
La crisi sudanese è un ulteriore elemento di instabilità in una regione, il Corno d’Africa, già di per sé instabile. I rapporti tesi tra Khartoum e Addis Abeba, legati alla costruzione della Grande diga del millennio sul fiume Nilo e alle dispute di confine nel triangolo di al-Fashaga, buttano benzina su un fuoco già acceso. Queste forti tensioni si inseriscono poi in un’area sconvolta dalla guerra in Tigray, dalla guerriglia di al-Shabaab in Somalia, dai costanti attriti interetnici in Sud Sudan. «I dossier sono tanti e i problemi non sono di facile soluzione – conclude Bruna Sironi – perché sono tutti, in qualche modo, intrecciati tra loro».