Di Tommaso Meo
Il conflitto in corso in Sudan tra esercito e paramilitari è “complesso” da gestire per la comunità internazionale ed è probabile che peggiori. A pensarlo è Maddalena Procopio, analista di Africa subsahariana dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr). Secondo l’esperta, questa complessità deriva dal fatto che la potenza di fuoco delle due fazioni in campo si equivale e la sconfitta di uno dei due gruppi avrebbe “un costo elevato per entrambi” a causa dei grandi interessi economici e politici che entrambi detengono nel Paese.
Tale ricostruzione è confermata al momento dagli sviluppi sul terreno: dopo oltre una settimana i combattimenti scoppiati sabato 15 aprile tra le forze armate sudanesi (Saf) del presidente Abdel Fattah al-Burhan e le Forze di supporto rapido (Rsf), capeggiate dal suo vice ed ex alleato di governo Mohamed Hamdan Dagalo (Hemetti) non hanno ancora visto prevalere nessuno. Le truppe delle Rsf – tra i 70.000 e 100.000 uomini in tutto il Paese secondo le stime – sono ben armate e addestrate, con una presenza capillare a Khartoum, mentre l’esercito ha dalla sua per ora l’aviazione. In questo contesto “è complicato per gli attori esterni concepire un processo di mediazione pensando di poter supportare una delle due parti o ricostituire l’accordo di condivisione del potere che era in essere tra i due generali dopo il golpe del 2021”, prevede Procopio. La cosa certa è che la coesistenza che prima reggeva “sembra un’opzione ormai poco percorribile”. È dunque “più probabile che la comunità internazionale cerchi di cooperare, almeno in fase iniziale, per un cessate il fuoco, con incentivi diversi per le due parti”. I cessate il fuoco tentati in questi giorni per ora non hanno retto. Anche per questo le possibili conseguenze, per l’esperta, “restano tutte da definire”.
I due leader in lotta: il presidente Abdel Fattah al-Burhan a capo dell’esercito, a sinistra, e il suo ex vice Mohamed Hamdan Dagalo (Hemetti), comandante delle forze paramilitare
Se il conflitto è destinato a non esaurirsi a breve, quali sono le possibilità che si estenda e che diventi un conflitto regionale per procura? “È alquanto improbabile che le potenze regionali africane, come Egitto, Kenya ed Etiopia, o quelle della regione più estesa come i paesi del Golfo abbiano interesse che il conflitto continui”, spiega l’analista dell’Ecfr. “Possono sperare nella vittoria di una delle due fazioni ma non nel conflitto in sé” proprio perché “hanno interessi economici in Sudan, dall’agricoltura al settore manifatturiero, da quello delle costruzioni alle miniere, e vedono l’instabilità del Paese come un rischio – di migrazione accentuata, di violenza ai confini e di danni economici – più che un’opportunità”. Come ricorda Procopio, gli Stati della regione, in particolare Kenya, Gibuti e Sud Sudan, stanno lavorando dai primi momenti a un tentativo di mediazione coordinato dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), un blocco economico-politico degli Stati del Corno d’Africa, già impegnato nei colloqui per un accordo di transizione civile in Sudan. “Mentre Stati come Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, che hanno molta influenza su entrambi i gruppi militari, è probabile provino a usarla per arrivare a uno stop delle ostilità”. Non è inoltre da escludere, continua l’esperta, “una mediazione congiunta da parte di più attori per via degli allineamenti esistenti con l’una o l’altra fazione”.
Al contrario la Russia potrebbe fungere anche in Sudan da “agente del caos” come in altri contesti di crisi negli ultimi anni. “Mosca”, dice Procopio, “spesso vede i conflitti come opportunità commerciali”, tra cui la principale è la “vendita di armi”, e per questo “potrebbe avere interesse che il conflitto continui”. Nel contesto globale di competizione geopolitica il Cremlino guarderebbe poi di buon occhio un avvicinamento di Khartoum. “Nell’ultimo anno”, ricorda l’analista, “il Sudan si è astenuto dal votare contro la Russia nelle votazioni di condanna per il conflitto con l’Ucraina in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite allarmando i partner occidentali. Queste potenze temono anche il potenziale di una base russa sul Mar Rosso”. Tuttavia “è un buon segno che la Russia abbia aderito al comunicato del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di sabato in cui si chiede una cessazione delle ostilità. È un gesto che va approfondito ma potrebbe segnalare una preoccupazione per le attività russe e della compagnia Wagner nel Paese, incluse quelle lucrative di estrazione di oro nella provincia del Darfur, che potrebbero risentire di una guerra civile dal punto di vista logistico e dal punto di vista economico”.