Sudan: «Mettiamo K.O. i pregiudizi»

di AFRICA

Vedere una donna che fa boxe è uno spettacolo insolito in Sudan. Ma nella palestra di Ali Osman, 78 anni, alcune giovani di Khartoum hanno deciso di indossare i guantoni. E ora si battono contro stereotipi e discriminazioni.

Ali Osman ha due occhi profondi e luminosi come il mare in una giornata di sole. Nel suo volto solcato da piccole rughe non ci sono illusioni appassite, ma i segni di una vita intensa e di una passione ancora vivida. «Malgrado il fisico non sia più quello di una volta, non mi sono ancora stancato di infilarmi i guantoni», sorride nella penombra del Club Al Rabie di Omdurman, la grande città confinante con Khartoum. «La boxe è la mia vita, non potrei farne a meno», aggiunge con un velo di nostalgia.

Kenyatta e Ali

Oggi ha 78 anni, ma la prima volta che Ali Osman è salito su un ring non era nemmeno ventenne. «Dopo due anni ero già diventato il capitano della nazionale di pugilato del Sudan», racconta. «Vedi – e tira fuori una foto in bianco e nero –, qui sono accanto a Jomo Kenyatta, a Nairobi, nel 1965, durante le premiazioni dei campionati africani». «In quest’altra immagine, invece, mi trovo assieme al grande Mohamed Ali, che ho avuto l’onore di incontrare in più occasioni», aggiunge accarezzando come una reliquia il ritaglio ingiallito di un vecchio giornale. Osman non è stato un fuoriclasse, la sua bassa statura e la corporatura esile non lo hanno aiutato. Durante la sua carriera da professionista ha collezionato una dozzina di vittorie e altrettante sconfitte. «Quando ho capito che non sarei mai stato un campione, mi sono messo a bordo ring per insegnare a tirare pugni ai giovani», racconta con umiltà.

Vecchio saggio

Nel 1970 è diventato coach della nazionale, nel 1984 ha assunto il ruolo di responsabile tecnico della Sudan Boxing Federation. Da allora ha cresciuto tre generazioni di pugili e fatto vincere medaglie e trofei prestigiosi ai suoi allievi. «Soprattutto ho insegnato a tutti la mia concezione della boxe, che non è affatto uno sport brutale. Ma è una disciplina nobile, un distillato di tecnica, tattica, rispetto, sacrificio, intelligenza». Fedele al suo modo di intendere e di vivere il pugilato, Osman si è conquistato ammirazione e rispetto reverenziale negli ambienti sportivi di Khartoum.

Il suo nome ha suscitato clamore cinque anni fa, quando l’anziano allenatore ha deciso di aprire alle donne le porte del suo Club Al Rabie. «Un giorno si sono presentate in palestra due ragazze, volevano imparare a difendersi. Erano stanche di subire molestie e prepotenze. Cosa dovevo fare? Ho dato loro dei guantoni e ci siamo messi al lavoro attorno al sacco».

In palestra di nascosto

Oggi Osman addestra una decina di atlete di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Tutte dimostrano grande determinazione e forza. «Ci sono ancora troppi pregiudizi nei confronti delle donne, ma le mie giovani allieve stanno demolendo gli stereotipi a suon di pugni», riflette l’istruttore. Benché il pugilato femminile sia stato riconosciuto ufficialmente dal ministero dello Sport, vedere una donna che fa boxe è uno spettacolo insolito in Sudan. La sharia, la legge islamica, impone costumi castigati e restrizioni piuttosto rigide. Alcune ragazze si trovano costrette a nascondere alle proprie famiglie il loro amore per attività “sconvenienti”: «Vengo ad allenarmi ogni volta che posso sfuggire al controllo dei miei genitori – confessa una delle giovani che frequenta la palestra di Osman –. Non approverebbero la mia passione».

Grazia e fermezza

Nel 2013, per la prima volta una pugile sudanese allenata da Osman, la ventiseienne Sahar Mohamed al Dooma, si è qualificata per partecipare agli All Africa Games. «Anche se è stata sconfitta al primo turno – fa presente il coach –, la sua presenza a una competizione internazionale ha rotto un tabù che in tanti credevano granitico e ha dato coraggio ad altre coetanee».

Khalda Mawia, 17 anni, è l’ultima arrivata alla corte di Osman. «Avevo sentito parlare di un vecchio pugile che allenava le ragazze, così un paio di mesi fa mi sono presentata in palestra per provare», racconta alla fine di un allenamento, il volto imperlato di sudore e incorniciato da un velo giallo. «Sono cresciuta in casa con tre fratelli più grandi e ho imparato a difendermi fin da giovanissima – racconta –. La boxe è il mio sport, la mia passione. Sono disposta a fare sacrifici, allenarmi duramente, sopportare gli sfottò dei compagni di scuola. Ma ho un obiettivo chiaro: approdare alle Olimpiadi». La grinta non le manca. Durante l’allenamento tira colpi precisi a raffica e saltella leggiadra per scansare i fendenti dell’avversario. Sul ring ostenta grazia, velocità, fermezza. Attorno, i compagni della palestra sgranano gli occhi e paiono ammutoliti. Nessuno la incita. Non ne ha bisogno.

(Marco Trovato)

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