La via della democrazia in Sudan è lastricata di problemi e tranelli. E, probabilmente, non basterà nemmeno la diplomazia delle “bollicine”. La cacciata di Omar al-Bashir, il deposta sanguinario, dopo trent’anni di potere indiscusso, non è stata sufficiente, anche se epocale, a riportare una sorta di normalità nel Paese. I due organi, nati l’anno scorso per gestire la transizione, governo e Consiglio Sovrano, hanno lavorato in maniera concorde per difendere e promuovere un processo di democratizzazione. Ma questo non è sufficiente. Le sfide da affrontare e da vincere sono ancora numerose e pressanti, anche perché l’equilibrio istituzionale è fragile per l’antica diffidenza che permane tra civili e militari. Basta ricordare che solo un anno fa, il 3 giugno 2019, oltre cento persone sono state uccise quando l’esercito ha attaccato e sgomberato i manifestanti accampati durante un sit-in pacifico di fronte al quartier generale dell’esercito. I manifestanti, che reclamavano democrazia, non chiedevano altro che una rapida transizione a un governo composto da civili dopo la destituzione del presidente al-Bashir, avvenuta nell’aprile dello stesso anno. A cacciarlo fu un Consiglio militare di transizione.
«Giustizia per i martiri»
Superare questa diffidenza è certamente difficile ma necessario per andare spediti verso una gestione più democratica della cosa pubblica. La riconciliazione nazionale non è un semplice esercizio intellettuale. Che sia, ancora oggi, un nodo quasi inestricabile lo dimostra anche il fatto che a ogni anniversario, come quello del 3 giugno, l’esercito scende per le strade della capitale e usa il filo spinato per chiudere le vie che conducono al suo quartier generale. I timori di proteste sono ancora all’ordine del giorno a Khartoum. Non è un caso che, sempre il 3 giugno, il presidente Abdallah Hamdok, ha promesso giustizia per le vittime del massacro. In un discorso televisivo ha assicurato «giustizia completa per le anime dei nostri eroi martiri e per i feriti e i dispersi. È un passo inevitabile e irreversibile. Stiamo aspettando il completamento dei lavori del comitato investigativo indipendente».
Un armistizio fragile
Poi vi sono altri nodi, altrettanto importanti, che devono essere sciolti. Sicuramente quello economico – il Paese è in grave difficoltà – ma anche il terrorismo. Il carattere laico delle nuove istituzioni ha stimolato la nascita di cellule fondamentaliste locali e l’attentato contro il presidente Hamdok del 9 marzo è lì a dimostrarlo. Un altro nodo è il processo di pacificazione di alcune regioni: il Darfur, il Nilo Azzurro e il Sud Kordofan. A ottobre dello scorso anno l’esercito aveva annunciato il cessate il fuoco in tutto il Paese, compreso il Darfur. È una sorta di armistizio, non certo un accordo di pace generalizzato, anche se i colloqui con tutte la parti proseguono ma a fatica. E, solo questa settimana, l’esercito ha accusato il Movimento per la Liberazione del Sudan (Slm) e il Consiglio rivoluzionario di Al Sahwa di aver attaccato le truppe sudanesi: «L’attacco rappresenta una flagrante violazione dell’armistizio dichiarato e un tentativo di trascinare il Darfur nell’instabilità e nel caos».
Ombre cinesi
Poi, giorni dopo, le Nazioni Unite hanno avviato il processo che porterà al ritiro delle forze multinazionali che operano insieme all’Unione africana nella regione del Darfur. Sono, poi, le stesse Nazioni Unite – meglio, Germania e Regno Unito – che vorrebbero avviare una missione militare in Sudan (articolo VII). Cina e Russia, invece, vorrebbero applicare l’articolo VI della carta dell’Onu che prevede solo consulenze tecniche e politiche. Anche in Sudan si ripete lo scontro tra Occidente e Oriente. Uno dei nodi, infatti, era come si sarebbe comportato il nuovo governo con la Cina, visti gli stretti legami che Pechino aveva costruito con al-Bashir. Nulla è cambiato. Anzi, i legami si stanno rafforzando grazie al coronavirus. Siddiq Tawer, membro del Sovrano Consiglio del Sudan, durante un incontro con un team di esperti medici cinesi, non ha perso occasione per sottolineare che la «visita della delegazione medica cinese riafferma i legami forti e profondamente radicati tra Pechino e Khartoum».
Pane e bollicine
Se tutto ciò fa rimanere il Sudan sul filo del rasoio, l’economia non ha pace. Il debito pubblico è arrivato al 212 per cento del prodotto interno lordo (nel 2019), il tasso di inflazione nel mese di aprile è schizzato al 99 per cento. Un balzo dovuto all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari: cereali, carne, latte e pane. A ciò si aggiunge, appunto, l’enorme debito pubblico e la scarsità di valuta estera. Ad aprile, infatti, le autorità sudanesi hanno aumentato il prezzo del pane: con una sterlina sudanese (più o meno 2 centesimi di euro) si può acquistare pane per 50 grammi, fino a pochi mesi fa erano 70 grammi. Il fattore scatenante delle proteste che hanno portato alla cacciata del dittatore è stato proprio l’aumento del prezzo del pane. Un fatto certo rilevante è rappresentato dalla decisione degli Stati Uniti di escludere il Sudan dalla lista dei Paesi non cooperanti nella lotta al terrorismo. Non è marginale. Ciò consentirebbe al Sudan di accedere ai programmi di finanziamento internazionale. Ciò potrebbe, inoltre, rilanciare la cosiddetta diplomazia delle “bollicine”. Gli Usa hanno imposto un embargo ferreo al Paese, proprio perché ritenuto fiancheggiatore e finanziatore del terrorismo, ma tra tutti i beni sanzionati è sempre stata esclusa la gomma arabica, senza la quale non esiste nemmeno la Coca-Cola.
Una montagna di documenti
Potrebbe sembrare, in questo groviglio, di poco conto il recupero di beni e dollari custoditi nelle banche e appartenenti al detenuto al-Bashir e al suo entourage. Cosa che si sta rilevando particolarmente difficile. Ma non è di poco conto perché darebbe un segnale concreto che il governo sta facendo davvero sul serio nella lotta alla corruzione. Si tratta di circa 4 miliardi di dollari oltre a beni immobiliari e a quote societarie appartenenti all’ex presidente. Per ora, da quello che è dato sapere, i primi sequestri sono iniziati già dall’aprile dello scorso anno: si tratta di 130 milioni di dollari in contanti ritrovati in sacchi all’interno della residenza di al-Bashir. Il comitato anticorruzione ha sequestrato poi hotel, centri commerciali, fattorie e centinaia di beni immobili non solo a Bashir ma anche a membri del suo entourage come l’ex ministro degli Esteri Ali Karti e l’ex ministro della Difesa Abdel Rahim Mohamed Hussein. Meno facile, per il comitato, è recuperare i soldi custoditi nelle banche. Il comitato dovrà studiare una montagna di documenti stipati, si dice, su tre camion. La stabilità del Sudan forse la si intravede all’orizzonte, purché non resti un miraggio nel deserto, ma la strada verso la democrazia è ancora lunga. Di certo sarebbe sciagurato disperdere nel vento il patrimonio delle proteste che hanno portato alla cacciata di al-Bashir. Se, poi, diventerà una vera rivoluzione potrebbe rappresentare, tra qualche anno, un esempio e una svolta per l’intera Africa.
(Angelo Ravasi)