Al confine tra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo s’innalza una catena montuosa avvolta dalle nebbie e ricoperta di un’incredibile foresta caratterizzata da muschi, licheni e piante fiabesche…
Sono stati i Bakonjo, il popolo che abita i versanti del massiccio, a chiamarlo Rwenzori: nella loro lingua significa “Colui che crea la pioggia”. Mai nome fu più azzeccato. Da cinque giorni camminiamo lungo sentieri inzuppati d’acqua in un paesaggio montano solcato da torrenti impetuosi e cascate scroscianti. L’aria è densa di umidità. I piedi affondano nel terreno fradicio mentre la nebbia avvolge ogni cosa. Solo di rado la fitta coltre di nubi si schiude per mostrarci il paesaggio fantastico che ci circonda: un susseguirsi di piante simili a giganteschi candelabri, licheni penzolanti, muschi spugnosi, fiori multicolori che paiono usciti da un libro di favole.
Regno delle nuvole
Situato nelle vicinanze dell’Equatore, al confine tra l’Uganda e la Repubblica democratica del Congo, il Rwenzori è un gruppo montuoso di dimensioni imponenti – lungo 120 chilometri e largo 65 – ed è dominato da sei montagne elevatesi nel corso dei secoli per la spinta esercitata dalle placche tettoniche sulla superficie terrestre all’interno del complesso sistema geologico della Great Rift Valley.
Siamo partiti per l’esplorazione di questo mondo di granito e acqua equipaggiati con scarponi da trekking, stivali, mantelle protettive, corde e ramponi. Abbiamo attraversato pantani e fanghiglie con le gambe che affondavano fino alle ginocchia. Per riposare e asciugarci abbiamo fatto tappa in piccoli rifugi e bivacchi. Ora che i raggi del sole hanno finalmente squarciato le nuvole, la fatica è ripagata dal maestoso spettacolo offerto dalla cima di questa cattedrale naturale con le guglie innevate, inserita dall’Unesco tra i Patrimoni dell’Umanità.
Monti leggendari
Già nel II secolo d.C. il geografo greco Tolomeo raccontò di una catena montuosa incastonata nel cuore dell’Africa. Gli affibbiò il nome di Selenes Oros, poi latinizzato in Lunaes Montes: Montagne della Luna. Riteneva, non del tutto a torto, che quelle vette perennemente avvolte dalle nuvole celassero le mitiche sorgenti del Nilo. In tempi più recenti, fu l’esploratore italiano Romolo Gessi il primo europeo ad avvistare e descrivere il Rwenzori durante la spedizione al Lago Alberto condotta nel 1875 con Carlo Piaggia.
Toccò poi a Henry Morton Stanley tentare di perlustrare il massiccio nel 1889, ma il giornalista inglese dovette rinunciare all’impresa a causa del clima avverso e della inadeguata attrezzatura. E non ebbero maggiore fortuna gli esploratori inglesi finanziati dalla Royal Geographical Society che negli anni successivi tentarono di risolvere quel possente enigma geografico. «Bruma, mistero e strane piante gigantesche riempiono le segrete valli dei Monti della Luna, dove ogni notte è inverno e ogni giorno estate», annotò un geografo britannico.
Conquista italiana
La prima ascensione fu compiuta con successo nel 1906 dalla spedizione scientifica italiana guidata dal Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, che riuscì a conquistare la vetta – 5109 metri di altezza (terza sommità africana dopo il Kilimangiaro e il Monte Kenya) –, battezzandola Cima Margherita in onore della regina Margherita di Savoia. Il fotografo e scalatore Vittorio Sella ci ha lasciato delle splendide immagini in bianco e nero di quell’epica spedizione composta da guide di montagna, biologi, geometri, un geologo, fotografi e la bellezza di 150 portatori.
Così lo scienziato-scrittore Filippo De Filippi descriveva gli atti finali della conquista dei Monti Rwenzori: «Il vento soffiava forte da est. Tutto attorno era il bagliore bianco della nebbia, impenetrabile allo sguardo. Ognuno aveva fisso nell’animo il pensiero della punta più alta, distante poche centinaia di metri, ma invisibile. E aspettarono, tendendo gli occhi ostinatamente a nord. In un’ora e mezzo poterono solo distinguere, per pochi istanti, tra le nebbie assottigliate, gli incerti contorni della vetta maggiore». Ancor oggi il legame tra il Rwenzori e l’Italia è molto forte, come testimoniano le numerose missioni scientifiche organizzate sul massiccio africano da istituti di ricerca del nostro Paese, finalizzate a studiare e preservare un ambiente unico al mondo, caratterizzato da una vegetazione esuberante che varia a seconda dell’altitudine.
Natura rigogliosa
Ai piedi della montagna si estendono pascoli e campi coltivati. La marcia d’avvicinamento alla vetta attraversa impressionanti distese di seneci, lobelie, eriche, ginestre giganti, boscaglie di bambù. La foresta si estende tra quota 1500 e 2800. Qui trovano rifugio la maggior parte degli animali del Rwenzori (ben 217 specie di uccelli, diverse specie di primati e grossi mammiferi a rischio di estinzione, come l’elefante della foresta). Il sottobosco è ricco di muschi spugnosi e licheni penduli che ricoprono buona parte degli alberi e in particolare la Nuxia congesta, riconoscibile per il tronco slanciato e i rami contorti. Usciti dalla foresta, verso i 2700 metri, inizia una brughiera caratterizzata da fiori vivaci e grandi piante di erica dal tronco nodoso che possono raggiungere i 10 metri d’altezza. Il passaggio dalla brughiera alla landa è caratterizzato dalla presenza di acquitrini dove fanno la loro comparsa le inconfondibili sagome dei seneci giganti. Oltre i 4500 metri l’ossigeno si riduce, l’aria si fa rarefatta, il freddo estremo, il sole bruciante. A queste altitudini sopravvivono solo alcuni licheni… Fino alla comparsa delle nevi che ammantano le vette.
Allarme climatico
Nevi, a dir la verità, sempre meno frequenti e copiose. Come tutte le montagne, anche il Rwenzori risente dei cambiamenti climatici in atto. Il gruppo montuoso ha 43 ghiacciai, che coprono un’area di 5 chilometri quadrati e costituiscono circa la metà dei ghiacciai presenti in Africa. Tuttavia l’innalzamento delle temperature ne sta provocando il progressivo scioglimento: numerosi studi documentano una costante diminuzione della massa glaciale, sia in estensione che in volume. Secondo le stime dei ricercatori, dall’inizio del Novecento sarebbe andato perduto il 75 per cento della superficie ghiacciata.
Il fenomeno preoccupa non poco, poiché il Rwenzori è fondamentale per alimentare il complesso sistema idrografico del Nilo Bianco. Le sue vette contribuiscono a trasformare l’umidità dell’aria che sale dalle foreste in nuvole foriere di precipitazioni, ma naturalmente senza riserve naturali l’intera regione andrà incontro a una progressiva aridità. E mentre gli scienziati lanciano l’allarme, i Bakonjo continuano a venerare come una divinità “Colui che crea la pioggia”.
(Agu Odoemene)