Viaggio con molte sorprese tra le venditrici che animano le strade – e dissetano – la capitale della Sierra Leone. Gran parte della popolazione di Freetown, specie quella femminile, vive grazie a piccoli commerci di strada, che pur nella loro precarietà rappresentano gli architravi delle economie famigliari e hanno il pregio di assicurare beni di primissima necessità, come l’acqua e il kerosene. Peccato che le autorità vogliano impedirli per questioni di decoro
di Federico Monica
Questo testo è tratto dal volume Freetown (OGzero – Orizzonti geopolitici, 2022, pp. 112, euro 13,00), da poco in libreria, firmato da Federico Monica, architetto e urbanista, studioso delle città d’Africa, collaboratore della nostra rivista. Il libro fa parte della collana “Le Città Visibili”, di cui abbiamo già pubblicato un’anteprima di Nairobi, che vedrà protagoniste altre importanti capitali africane (Bamako, Lusaka, Brazzaville…), i cui volumi – sotto il coordinamento editoriale di Angelo Ferrari – saranno presentati nei prossimi numeri della nostra rivista. Da non perdere.
La folla preme ovunque, riempie le strade come un torrente impetuoso, accelerando o rallentando a seconda di curve, strettoie, slarghi e ostacoli invisibili. In mezzo a questo fiume umano vivace e chiassoso una ragazzina magra, avvolta in una maglietta viola sbiadita, procede incurante con un vassoio enorme in equilibrio perfetto sulla testa dritta, come una barca che solca sicura i flutti tumultuosi. «Wata?», mi chiede passandomi di fianco. È l’occasione per fermarsi al bordo della strada e riprendere fiato. Freetown ti divora le energie se ti ci immergi completamente. Si chiama Aminata, ha solo 16 anni e quello sguardo disilluso ma pungente di chi ha alle spalle storie difficili. Storie simili a quelle di molti: un padre assente, una madre fuggita dalla zona di Makeni, nel nord, per cercare fortuna in città e finita a vendere paccottiglia in strada per poter sfamare lei e i suoi due fratellini. Una stanza in affitto in una baracca nello slum di Mabella da condividere con un’altra famiglia.
L’acqua di Aminata
«Kissy road è la mia casa», mi racconta sorridendo, «dopo la scuola vendevo arachidi ai taxi fermi lungo la strada e alle persone sui marciapiedi. Mi piaceva molto perché le arachidi sono leggere, e poi quando hai fame te ne puoi mangiare qualcuna». Forse è proprio per questo che molte venditrici di arachidi sono bambine o appena adolescenti. Basta un vassoio di lamiera in equilibrio sulla testa e due misurini per le quantità: dose piccola una scatola di sgombro o un barattolino di concentrato di pomodoro, dose grande una lattina di Fanta tagliata a tre quarti. Ora Aminata vende wata: acqua, anzi, sacchetti d’acqua, per essere precisi. Merci che possono sembrare ridicole a prima vista e che rappresentano invece un business senza rivali in una città assetata, tanto che sono più di cento le imprese che insacchettano acqua. I loro nomi, stampati a lettere cubitali su sacchetti trasparenti da mezzo litro l’uno, sono decisamente fantasiosi: Crystal Clear, Gee Fresh, Sunny, So Pure, addirittura Shalom o Ramadan.
Commerci di strada
La sua boutique, come per tantissime venditrici di Freetown, è la strada. Due strade per la precisione: Wilberforce street e Garrison street, nel cuore pulsante del mercato della città, dove a qualsiasi ora del giorno e della notte scorre un incessante fiume di persone per comprare, vendere, o semplicemente passare la giornata. I clienti non mancano mai: uomini accigliati in cerca di pezzi di ricambio per auto nelle botteghe dei nigeriani, donne che contrattano rumorosamente scampoli di tessuti wax, studenti che cercano di rivendere testi scolastici nelle bancarelle di libri usati vicino al Victoria park. Specialmente nelle ore più calde la vista della superficie azzurra e appannata dei sacchetti è una calamita che invoglierebbe chiunque a fermarsi per bere. Nonostante questo la vita non è sempre facile: il prezzo dell’acqua oscilla molto a seconda delle stagioni e anche la polizia spesso arriva a dare noia sgombrando le strade, rovesciando a terra la merce, agitando bastoni per scacciare tutti quanti. «Sembra che siamo noi piccoli commercianti il problema più grande di questa città. I ricchi e i politici dicono che occupiamo le strade, che impediamo alle loro macchine di circolare e di parcheggiare, poi dicono che la città è sporca, come se fosse colpa nostra. Eppure spesso sono loro che si fermano a comprare da noi».
Aminata non sa che le pressioni per allontanare lei e le sue colleghe dalle strade del centro sono sempre più forti. C’è chi parla di decoro urbano, chi di rischi per la salute o per la sicurezza, altri iniziano a creare alleanze con i proprietari dei negozi più grandi per liberare i marciapiedi e rinchiudere i venditori di strada in aree dedicate, lasciando le vie per auto e parcheggi. Il modello sbandierato sono le città europee o americane: pulite, efficienti, ariose, nulla a che vedere con la massa di persone e merci che si srotola ininterrottamente lungo le strade delle città africane. Eppure Freetown senza le grida delle venditrici di strada, senza i colori delle loro merci impilate o dei loro ombrelloni coperti alla meglio con teli di nylon sgargianti, sarebbe triste, grigia e vuota. Tutta un’altra città.
Piazze arrabbiate
Lungo Sani Abacha street c’è una calma inconsueta, come se mancasse qualcosa. Ai bordi della strada piccoli mucchi di rottami e legni carbonizzati hanno preso il posto dei coloratissimi e sempre affollati banchetti di paccottiglia. Capannelli di donne urlano e si sbracciano, la voce di una di loro sovrasta le altre: «È successo di notte, durante il coprifuoco. Ora la polizia dice che non sa chi siano i colpevoli, ma chi sarà mai che può uscire a distruggere tutto durante il coprifuoco?». Le venditrici stanno diventando sempre più scomode per il potere: quando l’inflazione ha iniziato ad impennarsi sono state le prime a organizzare proteste e scioperi bloccando il commercio e paralizzando la città. Anche qui l’onda lunga della guerra in Ucraina si fa sentire, specialmente sui costi del grano e del carburante, è così che le manifestazioni hanno presto iniziato ad allargarsi a macchia d’olio, nel silenzio e nell’indifferenza del governo. I primi giorni di agosto però il presidente ha mandato esercito e polizia a disperdere la folla con la forza e la situazione è presto sfuggita di mano, fra lacrimogeni e spari ad altezza d’uomo. Giorni di delirio in cui trenta persone hanno perso la vita: manifestanti, cittadini inermi, poliziotti linciati dalla folla inferocita.
Una volta riportata la calma era necessario lanciare un messaggio alle venditrici di Sani Abacha street, le menti della protesta, ed ecco che nottetempo, fra le strade rese deserte dal coprifuoco, le loro bancarelle si incendiano misteriosamente. Un duro colpo, ma a giudicare dagli sguardi decisi e dall’indole combattiva di queste donne ci vorrà ben altro per piegarle. “Premium microfiltered” dicono le scritte blu sul sacchetto trasparente: «È il nome della fabbrica dove fanno l’acqua, vicino a Waterloo. Il mio ragazzo era di lì, mi ha detto che ci sono file di persone lungo il fiume a raccogliere l’acqua nei sacchetti». «Ti ha raccontato bugie», le dico, lei sorride e alza appena le spalle. «Tanto è sparito, non si fa più sentire». Forse è meglio così, e forse fra tutte le altre quella bugia era la più innocente del mondo.
Piovono sacchetti
Un taxi bordò con un’enorme scritta adesiva sul parabrezza si fa largo a fatica fra la folla. L’autista, un uomo di mezz’età con una vivace camicia a quadri, ha l’aria esausta e il sudore gli cola copioso dalle tempie. Sporgendosi dal finestrino lancia due banconote appallottolate nel vassoio di Aminata e afferrata una busta strappa coi denti l’angolo superiore. Fa caldissimo e bastano pochi secondi per svuotarla, poi riparte lasciando cadere il sacchetto fra il marciapiede e la strada. Solo allora ci faccio caso: quei sacchetti trasparenti con le scritte blu ricoprono ogni cosa, si alzano in volo al passare delle auto, ricadono e si sovrappongono uno sull’altro come foglie d’autunno tristi e incolori. Li si vede ovunque: dalle aiuole che separano le strade principali alle spiagge su cui sono allineate le enormi canoe dei pescatori, che infatti non di rado si lamentano di trovare nelle loro reti più plastica che pesce. Sacchetti pieni d’acqua per risolvere il problema della carenza idrica che finiscono, paradossalmente, per diventare la maggior fonte di inquinamento dei torrenti e del mare intorno alla città. Un cane che sembra destinato a mordersi la coda in eterno girando intorno al solito, intramontabile problema: l’acqua.
La rete idrica è un colabrodo, alcune parti risalgono addirittura al 1800, mentre le estensioni faticano a raggiungere i nuovi quartieri, sempre più lontani, sempre più abbarbicati sulle colline, il tutto mentre le riserve della diga di Guma che da sempre disseta la città iniziano a preoccupare.
Rubinetti a secco
Ogni aprile Freetown si trasforma, e non è tanto il caldo soffocante che sembra sciogliere ogni cosa e paralizza le gambe offuscando i pensieri, ma è la mancanza d’acqua che ridisegna luoghi e geografie della città. I rubinetti pubblici iniziano ad avere meno pressione, uno dopo l’altro, finché l’acqua non diventa un filo invisibile e flebile che richiede decine di minuti per riempire una jerrycan. È così che ogni famiglia inizia a costruire una mappa mentale della città basata sui punti d’acqua ancora funzionanti. Una mappa che spesso cambia ogni giorno, drammaticamente, perché le fontane attive sono sempre meno, sempre più lontane e soprattutto sempre più affollate. Serpenti sterminati di taniche di plastica gialle o verdi affiancano le strade per centinaia di metri, possono volerci ore per riuscire a riempirle, magari nemmeno fino all’orlo. Nel frattempo si parla, si ride, si gioca e, come sempre accade dove si assembrano le persone, spunta all’improvviso un piccolo mercato informale.
Le industrie di acqua in bottiglia o in sacchetto cercano di fare più scorte possibile per poter aumentare i profitti durante le emergenze ma lo spazio non è mai abbastanza e nel giro di pochi giorni i rifornimenti di sacchetti freschi sono sempre meno, insufficienti per permettere di far giornata a tutte le venditrici del centro.
La stagione del kerosene
Aminata però non si scompone: «Quando l’acqua inizia a scarseggiare vendo kerosene», mi dice, dimostrando la straordinaria genialità dell’economia informale, capace di cogliere i bisogni quotidiani, infilarsi fra le pieghe della città ufficiale e offrire una risposta economica ed efficiente a tutti.
Appena finita la guerra, non più di vent’anni fa, Freetown era assetata di kerosene: la corrente elettrica saltava di continuo, a volte per settimane, e i rumori dei generatori a gasolio erano la colonna sonora della notte di città. I ricchi sacrificavano cortili, parcheggi e giardini per installarli sotto casa e per accumulare taniche di gasolio, i commercianti li piazzavano sul marciapiede di fronte al negozio, tanto che per strada era impossibile parlare e le nuvole di fumo nero avvolgevano ogni cosa. Ma il resto della città, tutte le alte centinaia di migliaia di persone sopravvissute alla guerra e in cerca disperata di rimettersi in piedi dopo anni di insicurezza erano nelle tenebre. Solo i lumini a kerosene potevano rischiarare appena la notte, illuminando fiocamente gli interni delle case, una piccola bancarella, la bottega di un sarto al lavoro sulla sua Singer a pedale. Pochi anni che in questa città sono come secoli. Aminata non conosce queste storie, lei è nata a guerra finita, poco prima che gli italiani completassero la diga e che la città ricominciasse a splendere di luci colorate. Ma la città cresce senza sosta, la richiesta di energia pure, e la centrale idroelettrica di Bumbuna non basta più a soddisfare la domanda, soprattutto quando le piogge ritardano.
Aminata non lo sa. Lei, che ha dovuto lasciare la scuola in terza elementare perché i soldi non bastavano per tutti e la precedenza era del fratellino maschio, sa solo che il kerosene si vende bene quando l’acqua inizia a scarseggiare e la gente si mette in fila alle fontane. «La zona migliore è quella di Dwarzak, lì molta gente è povera e non ha la luce in casa e poi la fonte lì vicino è sempre affollata», anche Aminata ha la sua geografia urbana, basata su parametri sempre diversi.
Dwarzak è uno slum infilato in una stretta valle; al centro scorre un ruscello maleodorante mentre i versanti, ormai totalmente disboscati e sostituiti da centinaia di case, sono talmente ripidi che nessuna strada ci si può arrampicare. Lì, per lei, ci sono i clienti migliori e la tanichetta da dieci litri di kerosene che compra a pegno da un libanese giù in città finisce in fretta. E così, quando la sera il sole va giù e il cielo si fa rosso, anche il caos della città sembra farsi più soffuso e l’aria si riempie del volo impazzito dei pipistrelli e dei canti dei muezzin. Melodie senza tempo che si mescolano alle cantilene dolci e ripetitive delle tante Aminata, perse per le strade polverose di Freetown con una tanica in equilibrio sulla testa: Keerosiin, Keerosiin.
Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop